19 Settembre 2006.
Torino.
Palaisozaki.
Fine concerto dei Pearl Jam.
Eddie Vedder ringrazia il pubblico con un papale “Gruazie mille” (ha un accento che ricorda tanto quello di Wojtila. Se non sapessi che è nato a Chicago (pensavo Seattle in realtà) potrei anche convincermi che sia polacco) e poi attaccano con una canzone per me nuova. Magnifica. La degna conclusione di un gran bel concerto. Baba O’ Riley degli Who (che ancora non sapevo essere del famigerato gruppo inglese).
Fu amore a primo ascolto.
Ma ancora non ero riuscito ad interiorizzarla come meritava. Ci vollero ancora un paio di anni e l’inclusione in alcune compilation miste di canzoni. Era la quinta track in “Mi sono preso bene” (dopo il liceo ho iniziato a dare titoli ai cd) e finivo sempre per ascoltare solo quella insieme a “Mother” dei Danzig.
Il senso di liberazione ed esaltazione in cui mi trascina è difficile da descrivere. Con quel suo inizio ripetitivo (50 secondi oggettivamente molto lunghi al primo ascolto) ma stuzzicante, in cui irrompono improvvise chitarra e batteria come un colpo di scena inaspettato.
Poderose e potenti.
E già sono esaltato.
Roger Daltrey inizia a cantare con una grinta primordiale:
“Out here in the fields
I fight for my meals
I get my back into my living”
(Qua fuori nei campi
ho combattuto per i miei pasti
ho sudato per vivere)
Il primo verso è un grido viscerale che mi attraversa ogni volta come un terremoto. Sta combattendo e , cazzo, se lo sta facendo bene. E’ un gigante immenso.
E poi ribadisce con una rabbia sorda,quasi soffocata:
“I don’t need to fight
To prove I’m right
I don’t need to be forgiven”
(non ho bisogno di combattere
per dimostrare che ho ragione
non ho bisogno di essere perdonato)
Cazzo,SI! SI! Questo è lottare! Non aver bisogno di dimostrare niente! Ha già vinto!
E poi mi stupisce ogni volta.
Cala e diventa lenta.
E’ Pete Townshend a cantare.
Si ferma, si fa consolatoria. Si concede di essere saggia, con quella lungimiranza propria dell’esperienza. Amara e disillusa. Di quell’istante in cui sei a terra ma sei conscio della cosa da fare finalmente. In cui ti lecchi le ferite prima di alzarti. E’ solo un attimo, un interludio circostanziale di un ricordo lontano.
“Don’t cry
Don’t raise your eye
It’s only teenage wasteland”
(non piangere
non alzare gli occhi
è solo desolazione giovanile)
E poi riparte. Fiera. A testa alta e passo rapido.Furiosa e impetuosa come un treno in corsa.
Gigantesca.
“Sally ,take my hand
Travel south crossland
Put out the fire
Don’t look past my shoulder
The exodus is here
The happy ones are near
Let’s get together
Before we get much older”
(Sally, prendi la mia mano
viaggia a sud attraversando la terra
spegni il fuoco
non guardarmi alle spalle
l’esodo è qui
i felici sono vicini, uniamoci a loro
prima di diventare troppo vecchi)
Non so chi cazzo sia Sally ma quando sento quel verso vorrei che prendesse anche la mia di mano. Ed è come se lo facesse. Mi vedo camminare felice per dei campi. Affanculo tutto e tutti. Non esiste più niente. Non c’è più nulla. Solo camminare a passo spedito. E tutto rimane dietro al rumore dei miei passi perso nel ringonfio senso di autostima. Smarrito nella convinzione che si può essere veramente più grandi di qualunque cosa ci accada (come recitava un libro sul pensare positivo che mi avevano regalato nel solito periodo buio). Se l’avessi sentita prima avrei spaccato il culo a tutto e tutti quando era il momento. Invece mi è arrivata quando ormai avevo già tirato le mie conclusioni.
“Teenage wasteland
It’s only teenage wasteland
Teenage wasteland
Oh, oh
Teenage wasteland
They’re all wasted!”
(desolazione giovanile
è solo desolazione giovanile
desolazione giovanile
desolazione giovanile
sono tutti perduti!)
E sfotunatamente finisce come tutte le cose belle con le sue dovute considerazioni.
Tutto passa. Ogni cosa è “solo” ciò che è. Qualunque cosa sia.
Tranne questa canzone perché l’unica cosa da fare e farla ricominciare di nuovo da capo. Se “Given to fly” è per me la liberazione, quella malinconica e fatalista, il sollievo di essere liberati da un giogo, “Baba O’ Riley è la libertà.
La grinta la voglia di alzarsi e spaccare veramente tutto, cambiare le regole, di andare dritti lunga una strada e mandare tutto e tutti a fanculo.
Mi fa bene ascoltarla.
Era il mio appuntamento fisso quando facevo portierato (aprivo e chiudevo una porta: un ottimo utilizzo di un laureato; il gradino sociale prima del mio era occupato dai soprammobili). Uscito da quegli squallidi negozi pieni di ricconi imperiosi, dopo aver passato dieci ore fermo in piedi con le ginocchia in fiamme, in un complesso di materialismo affollato e senza anima, la prima cosa che facevo era subito ritornare almeno parzialmente me stesso: mi rimettevo tutti i miei orecchini (purtroppo non potevo fare lo stesso con giacca e cravatte e levarmele immediatamente di dosso) e poi mettevo Baba O’ Riley nel tragitto di ritorno a casa per cercare di convincermi che il mondo non è solo merda ma che le cose possono anche andare bene.
Ed ero di nuovo padrone della mia vita. Anche delle attese e di quello che non dipendeva da me.
In qualunque modo avrei vinto.
Ecco perché le mie giornate sarebbero migliori se cominciassi ogni mattina ascoltando questa canzone.
Sally, take my hand.
spaccare tutto, come vorrei farlo veramente!
Magari è solo questione di aspettare il momento opportuno.. o la canzone..