La cena per conoscere – Racconto

Il rumore che veniva dalla cucina lo ghermì mentre vagava lontano immerso nei suoi pensieri in quello spazio di attesa che lo separava dalla seconda portata. Mise a fuoco il bicchiere di sorbetto fresco, leggermente alcolico, dal delicato sapore di mela verde che gli aveva avvolto il palato pochi istanti prima dell’assenza mentale con cui era svanito da quella tavola, per ritrovarsi oltre una nube oscura di ricordi evanescenti. Una sola immagine vaporosa ed ovattata di una poltrona a fiori con un poggiapiedi antistante ed un comodino laterale pieno di volumi polverosi ed antichi, rilegati in pelle e copertina rigida, le cui pagine emanavano l’odore di carta stantia ogni volta in cui venivano sfogliati. Quelle stesse pagine secche ed avide di acqua che asciugavano i polpastrelli ogni volta in cui vi si passava le dita sopra.
Non riuscì ad ottenere maggiori dettagli dalla memoria prima di ritrovarsi a gustare nuovamente il sorbetto.
La cena procedeva piacevolmente anche se ancora non aveva affrontato l’argomento che lo aveva spinto ad accettare l’invito in quella casa. Forse avrebbe fatto meglio a non trovarsi in quel posto. Avrebbe fatto meglio a passare la sera con Claudio e andare al cinema con lui dopo essersi preparato un paio di sciocchezze da mangiare. Ma lei cucinava divinamente e lui era sempre stato promiscuo ai peccati di gola. Il cibo era un porto feticista, un richiamo di piacere che inebriava il cervello con sapori totalizzanti che massaggiavano le sue tempie con una carezza delicata, che pizzicavano le sue guance tra due dita speziate o che schioccava sulle sue labbra un forte bacio salato mentre la dolcezza gli afferrava l’inguine e gli scaldava il sangue in tutto il corpo. In quel momento non poté fare a meno di immaginarsela davanti ai fornelli completamente nuda con sopra solo un grembiule a coprirla dal seno fino alle ginocchia, che lasciava invece scoperta tutta la schiena separata dal sedere con il laccio aderente ai suoi fianchi sinuosi come le curve del suo violino, mentre predisponeva gli ultimi dettagli per la successiva pietanza.
<< Sono contenta che tu abbia accettato il mio invito >>
Gli disse quando si presentò alla porta di casa sua.
<< Non ci siamo più visti e mi faceva piacere passare una serata con te. >>
Ma lui era stato solo capace di annuire e salutarla con due baci sulle guance e porgerle l’orchidea che le aveva comprato. Tra le tante ne aveva scelta una dal colore rosa acceso, screziata leggermente in bianco e giallo, in un piccolo vaso che la fioraia aveva decorato con un vistoso fiocco blu che casualmente aveva la stessa tonalità del vestito con cui lo accolse in casa, un pezzo unico leggermente scollato che lasciava le spalle scoperte e libere di sorreggere un sottile filo di perle molto vintage. Il suo primo pensiero fu come potesse muoversi agevolmente nella cucina vestita in quell’abito stretto ed elegante senza sporcarsi o macchiarsi. Al suo posto si sarebbe riempito di sugo dalla testa ai piedi, medagliato di unto con una quantità di onorificenze che solo i più alti generali avrebbero potuto ottenere e avrebbe avuto pezzi di carne e di pasta uscirgli persino dalle scarpe e dalle orecchie. Con le padelle era un vero disastro quanto invece all’opposto era sublime nelle interpretazioni delle sonate di Bach, anche se la sua predilezione andava alla sonata n 1 in sol minore di Ysaÿe per il solo motivo che l’aveva suonata al concerto dopo il quale l’aveva conosciuta e ad ogni successiva esecuzione le sue braccia erano accompagnate da ingombranti fantasmi di un passato mai del tutto chiarito.
Lo fece accomodare prestando molto attenzione ai convenevoli con i quali era solita mettere a loro agio chiunque varcasse quell’uscio ma anche per sapere qualcosa di loro, della loro vita. Era un’ospite impeccabile e le persone sono sempre molto predisposte a parlare di sé di fronte a qualcuno che manifesta curiosità e pone domande mosse da interesse, vero o simulato che sia poco importa. Si sistemarono in un salotto piccolo ma confortevole, con un’alta libreria a coprire un’intera parete e con una cristalliera a coprire l’altra, posizionata proprio vicina al bordo della porta. Le restanti due pareti erano costituite da vetrate che davano sopra una balconata in cui si intravedevano un tavolino e delle sedie. Si sedettero sul divano ma nessuno dei due scoprì apertamente il motivo di quell’incontro, preferirono entrambi rimanere ancorati a riferimenti circostanziali della propria esistenza trascorsa fino quel momento in un amalgama informe di lavoro e quotidianità. La lunga conversazione priva di alcun tipo di sapidità li congelò in una lenta inconsapevolezza che li condusse verso l’orario della cena e a quel punto si spostarono nella sala da pranzo dove il violinista vide una tavola rotonda elegantemente apparecchiata per due, con posate d’argento ed una tovaglia color crema pallida che pareva leggermente luminosa grazie alla luce soffusa del lampadario e della candela centrale, messa più per decorazione e scena che per una reale utilità. La luce era ben distribuita senza zone di buio, non era romanticamente soffusa e nemmeno accecante o fredda come una corsia d’ospedale.
Era una luce giusta per quella serata.
Lo fece accomodare e andò ancheggiando nella cucina per prendere gli antipasti, volgendosi indietro per un solo istante prima di passare nell’altra stanza. In quella breve attesa il violinista iniziò ad osservare le pareti sentendo su di sé tutta bizzarria di quella stanza. Non c’erano mobili oltre al tavolo. Un solo tappeto persiano con gli angoli scoloriti copriva quasi tutto il pavimento mentre le pareti erano totalmente ricoperte di quadri dallo zoccolo fino al soffitto. Quadri dalle forme più disparate e dalle posizioni più diverse, in un collage eterogeneo degli stili più differenti, monopolizzavano lo spazio visibile. Inquietanti ritratti di rudi signorotti del 1600 con lo sguardo fisso di fronte al ritrattista erano affiancati a quadri astratti dipinti con gettate di colore o a tenebrosi paesaggi dall’aspetto lugubre e spettrale, in una cornice concettuale che avrebbe dovuto essere quanto di più disturbante si potesse vedere ma che, nonostante l’apparenza, nel complesso infondeva una inspiegabile sensazione di armonia. Il sanguinario cavaliere dai lineamenti mortiferi in qualche modo creava un sereno connubio sinfonico insieme al pagliaccio armato di accetta ed il satiro nel campo che cercava di sedurre una ninfa con il suono del suo flauto. Ognuno di loro era un piccolo particolare che andava a comporre un’opera più ampia costituita dalla stanza stessa nella sua totalità, in cui ogni tela svaniva individualmente per rinascere parte di una composizione più vasta. Il cavaliere della morte diventava a quel punto nulla più che una macchia di colore e viceversa gli schizzi di tempera assumevano tratti definiti e rigorosi. Una tela attirò la sua attenzione, era una sequenza di cerchi rossi striati di bianco che parevano un vortice, ma mentre cercava maggiori dettagli la donna entrò nella stanza.
<< Sformato di verdure con formaggio fuso, fagottino di farro ai funghi, Fiori di zucca ripieni, Terrina di faraona con radicchio e tortino di funghi. >>
Gli poggiò davanti un ampio piatto quadrato di colore blu dove tutte le pietanze erano disposte in modo da comporre una stella a cinque punte, se uniti da una linea immaginaria tracciata da una mente molto fantasiosa.
<< Caspita che presentazione.. >>
Le disse con un vago imbarazzo e senza brillare di eloquenza.
Attese che si fosse seduta per poi versarle l’acqua nel bicchiere e fare altrettanto con il suo. Mentre lei si sistemava il tovagliolo sulle gambe, disfando la forma a pavone che aveva costruito, lui aprì il vino che stava al fresco nella glacette, una bottiglia di Timorasso dall’etichetta scura con le scritte in caratteri argentati. Le riempì il bicchiere e poi passò al proprio in attesa che prendesse il primo boccone. Era solito aspettare che fossero i padroni di casa a dare il via al pasto, non iniziava mai prima di loro. La sua era una forma di cavalleria personale che il più delle volte passava inosservata e che spesso veniva scambiata per una mancanza di gradimento del cibo quando nel suo temporeggiare per dare la precedenza finiva per far trascorrere troppo tempo a fissare il piatto fingendo di spostare pezzi di cibo con la forchetta o guardandosi in giro. A tratti proprio non andava d’accordo con il galateo formale.
Finalmente iniziarono, divorò tutto in breve tempo e finì per primo. Alzando gli occhi la guardò mentre portava alla bocca una porzione di funghi. Indugiò sulle sue labbra carnose e velate di un sottile strato di rossetto appena accennato mentre un trucco leggero le marcava i lineamenti dolci del viso al cui interno erano incastonati due occhi nerissimi e profondi. Erano due pozzi in cui affogare risucchiati dagli abissi di tenebra che celavano. Immobili, scrutatori ed ammiccanti in un solo cenno della testa.
La vide terminare di mangiare e volle rompere il silenzio ingombrante che si stava creando.
<< Buonissimo. Sei sempre stata una cuoca eccellente. Ricordo ancora adesso i risotti che cucinavi.. Quello del compleanno di Simone me lo sogno ancora da quanto era buono.. >>
Ma lei non si scompose per nulla e lo fissò per un breve istante dritto negli occhi.
Quei due pozzi sembravano raggiungere le profondità della terra fino al nucleo incandescente, intenzionati a raccogliere magma e lava con smottamenti interni che avrebbero finito per turbare la superficie dell’acqua con alcuni vaghi ed impercettibili bollori malcelati. Delle increspature inspiegabili sopra una immobile patina fredda quale era l’apparenza di entrambi.
Non rispose e andò in cucina da cui ritornò con un piatto di Ravioli di Baccalà bicolori. Un lato di pasta bianca e un lato al nero di seppia. Lo servì e si sedette in silenzio. Il violinista aveva previsto che la cena si sarebbe svolta senza parlare ma il silenzio tra loro iniziava ad essere troppo insistente. Arpionava i ravioli dal suo piatto senza alzare lo sguardo, in un clima in cui ogni parola si assopiva e poi moriva nel sonno. Eppure il motivo per cui aveva accettato quell’invito era nitido tra le sue intenzioni. Solo gli mancava il coraggio. Attendeva il momento giusto per la paura di non riuscire di nuovo ad ottenere quello che stava cercando, come se esistesse un solo istante appropriato per cogliere le occasioni e che non fosse in realtà l’istante stesso in cui si materializza un pensiero, un desiderio o la necessità di pretendere una spiegazione, quello più adatto. Tante volte aveva rimandato, aveva evitato. La banalità suggerisce che sia per paura, la realtà insinuava che fosse qualcosa di molto più profondo. Una marcata esigenza a farsi carico delle sofferenze altrui nella maniera in cui non doveva ferire gli altri. Poco importava che fosse lui a rimetterci. Doveva essere bravo. Doveva evitare discorsi sconvenienti e di mettere alle strette le persone utilizzando quegli schiaffi morali che avrebbero portato alla luce tutte le contraddizioni insite nel prossimo.
Sospirò e terminò il piatto.
Anche lei aveva finito e già gli stava addosso con lo sguardo, pressante e insistente come una domanda sgradita. Quella precisa domanda senza risposta che li vedeva stare alle due parti di quel tavolo rotondo in un confronto malcelato fatto di sottintesi.
I suoi modi iniziarono a mutare, a farsi molto meno sinuosi ed eleganti ma sempre più imprecisi, meccanici, a tratti sgarbati. Ritirò i piatti rapidamente, come se stesse sottraendo un cristallo dalla traiettoria di una stampede di elefanti e andò impettita nella cucina.
Mentre guardava la superficie del sorbetto, incupito e stanco, si rese conto che la sera stava avanzando improvvisamente con quella rapidità che schiaccia ai muri e preme sul petto lasciando senza respiro. La stanza si stava facendo scura e buia, i quadri iniziavano a diventare indistinguibili l’uno dall’altro mentre la luce della candela rischiarava solo quell’isola bianca che era il tavolino.
L’odore di pesce al forno si diffuse in ogni angolo mentre la seconda portata gli veniva quasi gettata davanti con un colpo secco che fece vibrare la tavola e tintinnare i bicchieri. La guardò basito mentre il viso le si faceva sempre più imbronciato e cupo nel silenzio di una conversazione che ormai languiva da parecchio tempo. Qualcosa era cambiato ma non riusciva a trovare le sue responsabilità in proposito mentre lei si faceva furente sempre più mano a mano che il tempo passava con la pelle del volto sempre più tesa. Non riusciva a parlare, era solo in grado di consumare tutti i piatti che gli proponeva. Quando ebbe terminato incrociò nuovamente lo sguardo di lei, iracondo, nero, una tempesta in arrivo che lo scompaginava e lo lasciava inerme. La donna prese i rispettivi piatti e li scagliò in direzione della cucina dove si frantumarono in numerosi pezzi che andarono a mescolarsi con gli avanzi unti che imbrattarono tutto il tappeto. Interdetto, non osò alzarsi e muoversi. Non capiva cosa stesse accadendo. Fuori dalla finestra il crepuscolo rosso iniziava a sparire lasciando sempre più spazio ad una notte senza luna.
Poco prima che ritornasse con il dolce, una squisita panna cotta ai frutti di bosco, la luce della candela era ormai ridotta ad una piccola fiammella ansimante che ondeggiava sopra un moccolo di cera agli ultimi sgoccioli. Quando ebbe finito si pulì le labbra con il tovagliolo e lo poggiò sul tavolo aspettando che anche lei avesse concluso. Incrociarono gli sguardi e recuperò la determinazione che non aveva avuto fino a quel momento uscendo finalmente allo scoperto sulle sue reali intenzioni.
<< Credo che tu sappia perché sono qui. Voglio sapere la verità. Ora. Dopo tutto questo tempo voglio finalmente sapere la verità. Sono certo che tu abbia molte cose da dirmi e vorrei che mi raccontassi come si sono svolte. E’ un mio diritto. >>
La luce si fece sempre più tenue mentre sul volto di lei si apriva un sorriso maligno e volutamente derisorio.
<< Ti sbagli. >> attaccò poi a parlare con molto calma << Tu non hai più nessuna certezza. Te le ho fatte mangiare tutte una dopo l’altra durante questa cena. In mezzo alla carne di pesce, tra la farina della pasta. Non ti è rimasto più nulla. Niente. Ti ho tolto tutto. Capisci? >>
La guardò perplesso.
<< La verità mi chiedi? >>
Continuò lei alzando la voce e scattando in piedi. La sedia cadde all’indietro mentre iniziò a gridare
<< Tu, patetico imbecille, non sai riconoscere la verità! Non riusciresti a vederla nemmeno se stesse di fronte a te! >>
Gli prese la testa fra le mani mettendo il volto davanti agli occhi del violinista ormai completamente atterrito
<< Vuoi la verità? Eccomi! IO sono la verità! Guardami! Mi vedi? MI VEDI? >>
Ma lui fece appena in tempo a scorgere nuovamente un sorriso, questa volta amorevole e dolce, mentre i lineamenti erano ormai sfocati e irriconoscibili. Solo i bianchissimi denti brillavano su quell’indefinibile volto riccioluto prima che la candela si spegnesse improvvisamente e diventasse tutto buio.

15 pensieri su “La cena per conoscere – Racconto

    • Penso sia difficile capire quello che si vuole. Inconsapevolmente forse si finisce per accontentare tante forme di pressioni diverse senza ascoltare fino in fondo quello che si vuole.
      Grazie mille..

Secondo me....

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