Le città invisibili – Italo Calvino

L’imperatore Kublai Khan chiede a Marco Polo di descrivergli le città del suo impero e da questa richiesta ha origine un lungo dialogo in cui dalle parole del famoso esploratore nascono una serie di luoghi surreali e fantasiosi che esistono solo grazie alla sua narrazione.

Il romanzo di Calvino è strutturato su 9 capitoli in cui si dipana una conversazione tra l’imperatore e Marco Polo, all’interno della quale sono contenute le descrizioni delle 55 cittàcittà che lo compongono, strutturate secondo un’alternanza precisa (su internet si può trovare lo schemino di riferimento) suddivisibili per categorie.

Una definizione di questo singolare romanzo viene da prenderla da Calvino stesso, quando all’interno proprio de “Le città invisibili” usa l’espressione “una ragnatela di rapporti intricati che cercano una forma” che è piuttosto calzante rispetto all’impressione che lascia questa lettura. Senza dubbio la propulsione arriva dall’originalità, dalla struttura, dall’ideazione, dall’eleganza del linguaggio e dall’incontestabile poesia della composizione. A tutti gli effetti sembra di sfogliare brevi componimenti poetici in cui il filo conduttore è una palpabile profondità esistenziale. Una sequenza di dipinti immaginari, onirici ma anche concreti nei loro passaggi simbolici e nelle metafore a cui rimandano. La statura autoriale è palpabile ed innegabile eppure rischia di perdere efficacia nella ripetitività del soggetto che, esaurita la spinta iniziale, finisce per spegnersi verso la fine. Nel senso, quanto si può sopportare di leggere la descrizione di città? Calvino è comunque attento nell’evitare di calcare la mano e costruisce un’opera non eccessivamente lunga da annoiare ma arrivandoci solo molto vicino. Certo, un grosso limite per la sua fruizione è la lettura del romanzo in un momento di predisposizione per evitare di soccombere all’incessante ripetitività e mancanza di colpi di scena che, del resto, è il cardine di originalità. La varietà di città come luogo dell’esistenza.

A fare da padrone sono solo la poesia, la fantasia surreale e la descrizione.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è l’inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

 

Secondo me....

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