Finalmente dopo un anno di attesa (e l’intermezzo di una vacanza un poco sfigata ad Atene) riesco ad andare a Riga.
Non appena a Maggio (2019) le mie condizioni lavorative sono cambiate e migliorate l’ho prenotata subito: partenza per fine Agosto.
Comunico tutto per tempo ma ci deve essere qualche intoppo perché negli orari risulta che dovrei smettere di lavorare il giorno in cui dovrei essere di ritorno. In qualche modo ci si aggiusta con i colleghi ma prima di partire faccio il pomeriggio. Rientro a casa a mezzanotte e mezza, mi lavo, preparo le ultime cose e alle due vado a dormire.
Mi sveglio alle tre per andare a prendere l’aereo.
Il mio limite di sonno consecutivo è quattro ore, sotto questa soglia entro in serie difficoltà ma ormai sono abituato a non dormire più con regolarità e ad avere ritmi diciamo personalizzati. E poi sto andando in ferie quindi chissenefrega.
Comunque, un’ora di sonno è quasi come non aver dormito.
I GIORNO : GIOVEDÌ
L’arrivo all’aeroporto non è nemmeno drammatico, faccio colazione e non vedo l’ora di salire in aereo solo per poter dormire e recuperare finalmente il sonno e la stanchezza arretrate. Lascio appena il tempo alle persone che dovrebbero sedersi a fianco a me di arrivare (sono nel posto vicino al corridoio) e poi crollo senza sentire più nulla. Passare dal lavoro direttamente al viaggio non mi ha dato molto tempo per realizzare che sono partito. Ho avuto un mezzo bagliore di consapevolezza mentre facevo il check in due giorni prima (non perché io sia uno che fa tutto all’ultimo ma perché è la nuova trovata di Ryanair) e poi sono ritornato nel tunnel lavorativo senza provare più nulla. Svenuto sul sedile, sento qualche vago scossone che non mi scompone minimamente ma quando sento il capitano di bordo pronunciare la parola “Riga“. Per la prima volta da quando sono partito (ma forse anche negli ultimi mesi) ho un moto di entusiasmo. Finalmente realizzo di essermene andato e di essere di nuovo in viaggio. E per un istante sono felice ed euforico e mi viene da sorridere da solo. Mi ritorna un poco di entusiasmo che fino a quel momento fatico a sentire.
Poi mi riaddormento.
Quando scendo dall’aereo ho un po’ di timore sul clima, ho portato vestiti da mezza stagione e una giacca, quindi spero che non faccia ne troppo caldo, perché non ho nemmeno un paio di pantaloncini corti, ma nemmeno troppo freddo. Soprattutto mi sono portato una discreta quantità di camicie alla coreana che vorrei indossare (altro acquisto, oltre alla vacanza e ad una chitarra elettrica, non appena ho trovato lavoro) per sentirmi un po’ più curato e meno trasandato di come sono solitamente.
La temperatura è tipicamente nordica: c’è un bellissimo sole ma l’aria è fredda all’ombra. La sensazione sulla pelle mi riporta alle varie capatine in Norvegia e in particolare, chissà perché poi, ad Harstad. Ricordo che appena arrivato avevo subito disfatto lo zaino per recuperare la felpa. Era intorno il 21 di Giugno di qualche anno fa e c’era il giorno perenne.
L’entrata all’aeroporto mi fa sentire molto a casa: per una qualche strana ragione le persone che scendono e quelle che devono salire si incrociano all’interno dello stesso gate in una confusione che solo noi italiani potremmo fare. Rincoglionito dal sonno mi limito a seguire alcune persone che sembrano sapere dove andare tagliando la folla di chi spinge per salire sull’aereo. Passando in mezzo ai negozi una stangona cerca di brancarmi spiegandomi qualcosa sulle creme di bellezza e i pori della pelle, mi appioppa una carta fedeltà ma bofonchio qualcosa sul fatto che non ho tempo e mi allontano.
Non è una scusa, devo andare al bagno.
Uscito dall’aeroporto seguo le indicazioni per gli autobus che partono dalla piattaforma di fronte (non si può sbagliare). So che ci sono le navette che, da quanto ho capito, si fermano praticamene ovunque tu gli chieda ma sono più tranquillo a prendere l’autobus 22 che si dovrebbe fermare alla stazione dei treni come capolinea e da lì dovrei essere molto vicino alla mia sistemazione. Il tragitto è di circa quarantacinque minuti, sale e scende tantissima gente, e mi godo il paesaggio esterno. Non che ci sia qualcosa di stratosferico da ammirare ma voglio riempirmi gli occhi di tutto quello che posso vedere. Passo in mezzo ad una zona piena di concessionarie e supermercati, quindi insignificante, ma io sono ugualmente estasiato perché sono in Lettonia, lontano da casa, dal lavoro, dalle preoccupazioni.
Io non esisto più.
Che figata.
Mi sembra già tutto molto più bello. Davanti a me ascolto una famiglia di italiani pensando di avere qualche suggerimento su quando scendere ma in realtà so di dover andare fino al capolinea. Credo. Passiamo davanti alla Biblioteca Nazionale, un enorme edificio ondulato con pareti a specchio, e poi sopra un ponte sul fiume. Quando l’autobus si ferma di fronte ad un movimentato mercato all’aperto mi chiedo se riuscirò a ritrovarlo per farci un giro perché, al momento è difficile avere dei riferimenti. Alla fermata successiva decido di scendere perché ho l’impressione di rischiare di allontanarmi troppo dal centro e comunque ha proprio l’aria di essere il capolinea perché scendono tutti. Dovrebbe essere nei pressi della stazione centrale dei treni ma io non la vedo.
Vabbè.
Consulto il cellulare per capire dove andare e in quindici minuti sono all’albergo dove mi ricordano che non posso fare il check in prima delle 14:00. Confermo di essere a conoscenza di questa cosa ma di voler solo lasciare lo zaino per evitare di girare quattro ore carico come un mulo. Porto con me solo la reflex e passeggio in linea retta percorrendo un’ampia strada che mi porta ad attraversare tre parchi e ad immergermi nel verde. Passeggio tranquillo, senza una meta e senza azzardare troppo per evitare di perdermi. Così, senza volere, passo davanti alla Cattedrale della natività di Cristo, all’Accademia d’Arte Lettone e al Museo Nazionale d’Arte Lettone ed inizio a scoprire dove si trovano. Individuo il primo cartello con indicate le attrazioni da vedere nella città, di cui in realtà Riga è disseminata, e scopro di essere a meno di 500 metri dal famigerato Quartiere Art Nouveau, il più grande d’Europa e costruito
dall’architetto Ėjzenštejn. Già, proprio lui. Il padre del regista di quella cagata pazzesca (cit.) che è stato “La corazzata Potëmkin“. In realtà questa curiosità, letta in “Anime Baltiche” di Jan Brokken (che è il motivo per cui mi trovo qua), l’avevo completamente rimossa, ma ci pensa un negozio turistico a ricordarmela. I palazzi del quartiere, i più belli si trovano in Alberta Iela (Albert Street), sono veramente meravigliosi per tutti i moti decorativi, la commistione di generi ed i colori, vanno veramente visti e meritano il tempo trascorso ad osservare i dettagli eleganti di cui sono composti.
Giracchio un po’ inconsapevolmente e con una buona dose di stanchezza ad accompagnarmi. La fame si presenta a chiedere il conto della levataccia nonostante l’ora di fuso ma cerco di resistere il più possibile. Cedo ai morsi e non mi sbatto nemmeno di cercare troppo, decido di infilarmi in un bar con dehor che mi pare si chiami Flying Frog. Il “Casa Nostra” italiano lo escludo a priori. Sia per il nome che per la cucina. Se volessi italiano lo mangerei a casa. Ordino una birra, specificando però che ne voglio una del posto, e un Hamburger che, solitamente non ordino quasi mai, tranne in vacanza. L’aria è fredda e all’ombra si sta appena bene, se non quasi freddo. Sto masticando la carne e mi chiedono subito se è buono, evito di sputazzare e parlare con la bocca piena ma faccio cenno che mi piace. La stanchezza sta facendo capolino ma non è ancora ora di fare il check in, decido comunque di avvicinarmi all’albergo molto lentamente, pago (qui si usa farlo al tavolo e ti portano un contenitore con dentro il conto in cui lasciare i soldi) e seguo la parallela alla strada che ho fatto all’andata.
Faccio il check in e mi sistemo.
Rispetto alle recensioni disastrose che avevo letto esattamente subito dopo aver prenotato, l’Hotel Rejna mi sembra più che dignitoso. Si, è vero, la moquette è vagamente usurata ma la camera è pulita, ho un letto matrimoniale quindi chi se ne fotte. Il personale è un attimo freddino, rispetto a come mi ero abituato ad Atene, ma vale la stessa reazione di cui sopra. Decido di riposarmi un attimo e svengo letteralmente per tutto il resto del pomeriggio.
Quando mi sveglio mi rimetto in sesto con una bella doccia e vado verso il centro. Seguo la stessa strada del mattino per poi deviare in una perpendicolare e raggiungere il Monumento alla libertà, dove sono esposti alcuni stand commemorativi della Via Baltica accompagnati da foto e spiegazioni. Ricordo di averne letto sempre nello stesso “Anime Baltiche” ma di aver rimosso nuovamente. Si tratta di una pacifica manifestazione di protesta contro l’invasione russa a favore dell’indipendenza delle repubbliche baltiche che ebbe luogo il 23 Agosto 1989 e prese una forma quantomeno originale ed unica: Lituani, Lettoni ed Estoni crearono una lunghissima fila umana che percorreva i tre stati tenendosi per mano. Partiva da Vilnius, passava per Riga e terminava a Tallinn. Leggo le spiegazioni e poi vado a passeggiare nel meraviglioso parco adiacente dove vedo aiuole fiorite, il solito ponte pieno di lucchetti e il punto di partenza per diverse gite in barca. Mi sposto verso il centro dove, prendendo strade più o meno a caso, prima incappo nella famosa
Casa del Gatto, poi mi ritrovo sulle rive della Daugava, il fiume che attraversa Riga, al tramonto. Qui ho modo di fare una bella foto e scoprire che anche si può fare un giro con una barca più grande (a proposito, le foto “serie” qui). Il tramonto mi sembra un buon momento, ritornerò.
Senza volere mi ritrovo nella piazza dove ci sono il Municipio e La casa delle Teste Nere ma, essendo in modalità “esplorativa a cazzo” non mi soffermo più di tanto ed inizio ad essere concentrato sulla ricerca di un posto papabile in cui cenare. Mi ritrovo a passeggiare a fianco delle Chiesa di San Pietro e in un grande locale adiacente sento cantare “Bella ciao” ma in spagnolo. La casa di carta, per quanto l’abbia adorata (l’unica serie con cui ho rotto l’astinenza da serie), ha creato un po’ di confusione in tal senso. Ma niente polemica, la ascolto e poi proseguo sulla stessa strada dove adocchio un ristorante che mi pare interessante. Ambiente piccolo ed intimo con dehor, ma mi comunicano che non hanno più posto quindi continuo la mia passeggiata. Inizio a prendere viuzze sempre più piccole ed incappo in un ristorante israeliano, lo Samna Ve Salta, in cui non sembra esserci tanto casino. Entro ma il cameriere mi comunica dispiaciuto che sono le 21:00 e la cucina ormai è chiusa. Abbastanza sconfortato vado in una via più grande dove vedo due locali che non mi convincono perché sembrano smaccatamente turistici ma dopo due o tre andirivieni mi decido ad entrare in uno di questi.
Mi invitano a sedermi nel dehor e vedo una ragazza molto avvenente, sembra una bambola, seduta insieme ad un’amica nel tavolo in fondo. Distratto dalla visione ho l’unico guizzo di iniziativa della serata nel sedermi di fronte a loro in modo da poterle guardare. Sono in abito da sera, vestito striminzito ultracorto e stretto con le spalle scoperte, bionda lei, scura l’amica. Io con una felpa dell’adidas. Sul tavolo hanno quattro bicchieri di vino bianco quindi immagino non siano sole. Mi siedo ed ordino la cena. Cepelini, che in realtà credo siano Lituani e non lettoni, ma me ne farò una ragione. Sono dei grossi ravioli a forma di zeppelin (a cui erano stati dedicati se non ricordo male).
Ogni tanto guardo le due ragazze che perlopiù parlottano e guardano il cellulare. Quando scambio un lungo sguardo con la ragazza bionda mi si mescolano le budella e nella mente mi si affollano mille pensieri. Una parte di me, in particolare in questo momento della vita, ha tanta voglia di fare conversazione e conoscenza, l’altra parte non ha la minima idea di come fare. Come quando mi hanno consigliato di fare attenzione al supermercato e provare ad attaccare bottone. Si, ma che cazzo dico? “Oggi le angurie le mettono meno del solito?” Provo ad investirla con il carrello? E qui non è diverso. Che cazzo potrei dire? Nel frattempo nella mia testa ho mille immagini di film che si presentano. In questi momenti vorrei avere un suggeritore come in Provaci ancora Sam. Lui aveva Bogart, io al massimo potrei avere Bombolo o Aldo di Venerdì 12. Temporeggio pensando in realtà che forse il momento per dire una qualunque cosa era quello sguardo (ma non ho mai avuto tempismo nella vita, sono sempre stato a scoppio ritardato) e ordino il liquore tipico della città, spero
che l’alcol aiuti a sciogliere anni di introversione e paranoie.
Il Black Balsam, disponibile in cinque fragranze. Inizio da quella classica pensando che avrò modo di assaggiarle tutte. Mi arriva questo amaro nerissimo a 45°. Fatico a finirlo per quanto è forte e nonostante questo non mi ha nemmeno ubriacato. Non ha sciolto nessuna paranoia ma ha attivato una serie di pensieri che sono peggio delle insicurezze (ammesso che siano veramente quelle..) e quindi sulla scia dell’umore maldisposto pago e me ne vado. Decisamente l’abbordaggio estemporaneo non è mai stato il mio forte. Di ritorno in albergo mi guardo in giro e mi soffermo sull’aria che si respira in questa città.
Riga è una città viva, vivace, luminosa, colorata, con le sue strade piene di gente e la sua atmosfera leggera.
II GIORNO : VENERDÌ
Passeggiando in una strada nuova e prendendo traverse random mi ritrovo davanti alla Chiesa di San Pietro, evangelica mi pare, in cui decido di entrare (a pagamento, 5 euro) perché mi sembra di capire che ci sia la possibilità di vedere il panorama dal campanile. Ci sono poche persone, non devo fare la fila o altro. Subito dopo l’ingresso si va a sinistra, si salgono le scale dove si raggiunge l’ascensore con dentro il sosia sputato di Rasputin che lo aziona seduto dal suo sgabello e si arriva alla sommità. Riga dall’alto è veramente suggestiva, tutte i panorami dall’alto sono suggestivi, tranne quando vengono fotografati perché, personalmente, non mi sanno di nulla. Cerco di dare un senso all’aver pagato un biglietto e rimango il più possibile, fino a che non mi rompo i coglioni ovvero quando non inizia ad esserci talmente tanta gente da…rompermi i coglioni.
Una giapponese continua a chiamare l’ascensore. Qualcuno le fa presente che viene su da solo ma lei continua a schiacciare il pulsante insistentemente. Spero non sia qualche segnale d’allarme perché quando l’ascensore arriva lei si è dileguata e davanti alle porte ci sono solo io. Passeggio all’interno della chiesa dove sono esposte alcune opere d’arte di una mostra temporanea e poi esco. Giungo alla Cattedrale verso le undici e mezza. Il cartello dice che alle 12:00 ci sarebbe stato un concerto e che i biglietti sono in vendita. Non ho nessun interesse e vorrei solo vedere la chiesa. Ingenuamente penso sia ad ingresso e libero e che a San Pietro si pagasse per l’ascensore, ma appena mi avvicino sento gridare “Hellooooo?!” da una donna all’ingresso che mi riprende e mi fa capire che bisogna pagare. Diciamo che ci sarebbero stati anche altri modi per farmelo presente ma vabbè, dopo essermi informato e realizzando che c’è poco tempo decido di uscire. In una traversa entro nella Chiesa di S.Maria Maddalena e poi in quella di Our lady of Sorrows senza troppi entusiasmi. Nel mio girovagare prima di fronte ai Tre Fratelli, tre palazzi molto simili costruiti in periodi storici diversi (uno ospita il Museo Lettone dell’Architettura) finisco nuovamente davanti alla Casa delle Teste Nere e decido di entrare.
L’edificio in realtà è stato completamente ricostruito perché fu raso al suolo durante la II Guerra Mondiale. Di originale rimangono solo i sotterranei che sono visitabili come tutto l’edificio. Fu costruita intorno al 1300 e si trattava della sede di una corporazione mercantile lettone chiamata La confraternita delle teste nere perché nel proprio stemma avevano delle teste di moro che, peraltro, adornavano tutta la casa. Attualmente viene usata per attività comunali o per ricevimenti di personalità importanti, gli interni sono effettivamente molto eleganti mentre l’esterno è decorato con una serie di simbologie che rimandano a vari concetti e bla bla, spiegati egregiamente nella guida all’interno. Dalla piazza adiacente ogni giorno partono i giri turistici a piedi, che credo siano gratis da quanto ho letto, ma non vi ho mai partecipato. Al centro la Statua di Rolando dalla cui punta della spada, mi fa sapere wikipedia, viene calcolata la distanza di tutte le altre città lettoni.
Non avendo molta voglia di lanciarmi alla ricerca di un ristorante ripiego su uno di quelli vicini, il Dide Riga (almeno mi sembra), che a differenza degli altri a fianco, sembra avere meno avventori (il che non è di grande auspicio) ma preferisco non ammassarmi. Ordino una zuppa tipica, il Podins (o almeno mi pare fosse scritto così anche se non ne sono poi così sicuro) che si tratta di formaggio fuso filamentoso come un gomitolo di lana, patate, verdure e maiale affumicato (nella variante da me scelta). Sarebbe pure buono ma la porzione è veramente striminzita e quindi mi getto anche sul dolce. Una coppa affogata nella panna con dentro cannella, mele, pinoli, uva passa e altro. Accettabile ma non eccezionale, scarto la panna e mangio quello che c’è sotto. Mentre aspetto il conto vedo una coppia con la stessa maglietta entrare nel locale. La guardo bene e vedo la scritta “23 Agosto Trentennale della Via Baltica” ed è il motivo per cui c’è molto fermento in città. Mi alzo e con calma vado a fare una passeggiata lungo la Daugava, arrivo fino al Castello di Riga che, di per sé, non è nulla di speciale se non la dimora del presidente della Repubblica. Mi infilo in una strada in cui scorgo, di fronte ad un ristorante, la scritta “cucina casalinga” e decido di ripassarci al momento opportuno. Al termine della via fitta di ristoranti e bar mi ritrovo sotto la Torre delle Polveri che attualmente ospita il Museo della Guerra, visitabile gratuitamente (anche perché a pagamento non varrebbe la pena) in cui sono esposte armi e divise militari per quattro piani di un edificio storico. Si fa pomeriggio inoltrato e passando in mezzo ai parchi rientro in albergo a riposare.
Per la cena scelgo il Milda, su tripadvisor viene indicato come ristorante tipico. Arrivo nei pressi del posto dove dovrebbe trovarsi ma fatico a riconoscerlo almeno fino a quando non vedo una manciata di tavolini all’esterno, che inizialmente non credevo fossero proprio di quel ristorante , e la scritta “Milda” capeggiare enorme sopra una parete. Il cameriere mi chiede se ho prenotato perché diversamente sono al completo ma dice di attendere perché vuole accertarsene. Nel frattempo un altro cameriere mi chiede di cosa abbia bisogno e mentre rifaccio presente che vorrei (ovviamente) mangiare ma ho chiesto al collega, una donna dal tavolo dice che sta per andarsene. Esce il primo cameriere e in quell’istante si alzano da un altro tavolo e quindi, dopo una breve attesa, mi invita a sedermi. Capisco di aver avuto una solenne botta di culo a trovarmi nel posto giusto al momento giusto perché da lì in poi si siederanno solo i prenotati. Su internet viene indicato come un posto abbastanza di livello, l’idea che mi faccio dai camerieri è che ci sia una certa eleganza ma senza esagerare. In fin dei conti sto mangiando su di una strada che non ha nulla di panoramico e in cui una moto mi sgasa davanti. Ordino una birra non filtrata e petto d’anatra con cipolla selvatica, grano tostato, mele e prugne. Ottimi entrambi e lo confermo anche al cameriere che chiede feedback mentre ho la bocca piena, anche se come mangiare non sono convinto sia così tipico, ma questo a lui non lo dico. Sul menù ci sarebbe stata una zuppa di funghi servita dentro una ciotola fatta di pane che veniva indicata come lettone ma con i funghi non vado molto d’accordo quindi ho optato per altro. L’unico dolce papabile sembra essere lo stesso di pranzo e quindi evito. L’aria serale è piuttosto fredda anche se il primo giorno era decisamente peggiore.
Finito di mangiare e scolata la birra mi prende un po’ di malinconia che non so bene da dove parta. Chiedo il conto, bevo l’ultimo sorso e vedo un moscerino affogato nel mio bicchiere. Mi ritrovo a pensare che, alla fine, siamo tutti moscerini sul fondo di un bicchiere e quanto questo sia un pensiero di merda. “We’re just two lost souls / Swimming in a fish bowl / Year after year“, questo si che è un pensiero! Altro che “Siamo tutti moscerini sul fondo di un bicchiere“. Ma vaffanculo. Mi alzo è cammino fino alla piazza adiacente alla Casa delle teste Nere, attirato da una esecuzione live praticamente perfetta di Hotel California. Sono rapito e rimango ad ascoltarla tutta, poi devio verso il Monumento della Libertà dove si sta svolgendo una manifestazione in ricordo della Via Baltica: due file di candele partono dal monumento e vanno verso il centro mentre intorno una gran folla di persone si tiene per mano e canta in Lettone. Prima ci deve essere stata una manifestazione perché stanno smontando un palco ma le persone continuano a rimanere. E anche io, ammirato, almeno fino a quando la birra non mi fa scoppiare la vescica e mi costringe a rientrare.
III GIORNO : SABATO
Riga, come molti altri stati di questa zona, aveva un ghetto ebraico che su tripadvisor è indicato come piuttosto in periferia, non lontano dal Memoriale della Sinagoga Corale che fu bruciata dai Nazisti durante l’invasione della II Guerra Mondiale. Nella stessa zona dovrebbe esserci anche il Museo dell’Olocausto e quindi mi muovo in questa direzione. Decido di passare per il capolinea degli autobus per capire se è da lì che parte il 22 per andare all’aeroporto e prendere già il biglietto. Non vedo la scritta della fermata da nessuna parte ma, mentre sono lì, vedo il famigerato 22 caricare delle persone e partire quindi mi tranquillizzo. Mi è stato consigliato di andare a Jurmala, località balneare, o Sigulda, con castelli medioevali, che sono molto belle ma continuo a non trovare la stazione dei treni che dovrebbe essere non lontana. Vabbè. Proseguo fino al Memoriale della Sinagoga, che è costituito da quello che rimane dei piani interrati. Di per sè non ha un grande impatto visivo, l’impatto viene dall’apprendere che quando fu bruciata vi erano ancora le persone dentro.
Mi reco a piedi in zone sempre più periferiche, le strade diventano progressivamente deserte e i palazzi trascurati e fatiscenti. Dopo aver camminato per un po’ di tempo mi dico che dovrei almeno essere arrivato nei pressi e, in effetti, arrivo a destinazione. Mi trovo nel quartiere che nel secolo scorso era adibito a ghetto ebraico. Il Museo, però, non è qui ma è praticamente non lontano da dove si trova il mio albergo. Un sacco di strada per niente. Ritorno indietro facendo un’ampia strada abbondantemente deserta, incontro poche persone, un paio che passeggiano, una donna e nei pressi di una zona alberata c’è, nascosta tra le fronde ed i cespugli, della gente che parla ad alta voce. Sembrano dei clochard. Dopo una buona oretta mi avvicino al centro perché vedo avvicinarsi l’edificio dell’Accademia Lettone delle Scienze, una roba orrenda ma che serve da punto di riferimento. Cerco il Museo dell’Olocausto e finalmente lo trovo. Chiuso il sabato ovviamente. Proseguo verso il centro fino a che un assembramento di persone non attira la mia attenzione e decido di infilarmi anche io. Sono capitato dentro il famoso Mercato Centrale di Riga, quello che avevo visto il primo giorno. Qui tra bancarelle all’aperto di frutta, odori speziati, vestiti e cianfrusaglie di altre epoche mi perdo a gironzolare fino a quando non sbatto il naso contro l’entrata della Stazione dei Treni esattamente in corrispondenza della penultima fermata del 22. Entro dentro per informarmi sui treni e per curiosare, esco dall’altra parte e mi ritrovo praticamente di fronte al mio albergo.
Capisco solo ora che l’enorme edificio ultramoderno che avevo scambiato per un centro commerciale è in realtà la stazione dei treni.
Da qui decido di andare in centro e fare il giro in barca partendo dal parco. Ho deciso di fare il turista fino in fondo e di concedermi anche questa esperienza. Si chiama Maria e si possono sedere al massimo 12-14 persone, percorre tutta la parte di Daugava che taglia il centro in un canale non molto ampio che attraversa le zone dei parchi e poi esce in quel tratto di fiume che si getta direttamente nel Mar Baltico. Farsi cullare dalle onde è veramente piacevole e me lo godo fino in fondo, nel silenzio guardo il panorama e scatto qualche foto. Il giro dura un’oretta e con questa nave costa diciotto euro ma ce ne sono altre anche a meno. Quando ritocco terra per un attimo mi sembra di continuare a dondolare ma passa subito. Per il pranzo scelgo di riprovare il ristorante israeliano che non dovrebbe essere molto lontano, la sera vorrei fare l’altro giro in barca e per cena come minimo lo trovo di nuovo chiuso. Quando entro vedo che non c’è nessuno a parte un ragazzo seduto al tavolo che scartabella con dei fogli e che non sta mangiando.
Porca puttana sono arrivato di nuovo tardi.
Mi avvicino per chiedere se sono ancora aperti e il cameriere si dimostra da subito brillante e disponibile “Certo che si può mangiare! Stavamo aspettando solo lei! Non faccia caso al disordine!” Mi invita a sedermi e si dimostra da subito estremamente cordiale e disponibile. Ordino un Hummus con manzo a pezzi e Pita. Nel frattempo iniziano ad entrare altre persone. Anche qui mi chiede se è buono mentre mi sto ingozzando e confermo senza indecisioni. In effetti è così buono che ordino anche il dolce un (o “una”, non lo so) Kenafeh. Mi avverte che ci vuole mezzora per prepararlo ma non ho fretta. Quando mi arriva realizzo che è veramente tanto, si tratta di una tortina con formaggio e pasta a fili sottili imbevuta di sciroppo alle rose e frutta secca sbriciolata. Ottima ma mi dà un colpo di grazia perché mi riempe come una botte. Esco più che sazio e mi imbatto nel Museo delle Illusioni, come a Vilnius e Atene. Decido di tenermelo per un altro giorno e di andare al Museo dell’Occupazione che rimane poco distante sul viale posteriore al Monumento alla Libertà. Ingresso ad offerta e tutta la storia della Lettonia divisa per tre periodi diversi. Invasione dell’Urss prima, invasione della Germania Nazista in mezzo, invasione dell’Urss dopo con tanto di foto, storia del paese, documenti. Assolutamente da vedere per farsi un’idea di cosa possano aver subito questi popoli, a più riprese, e dai peggiori in circolazione per diversi anni. La pulizia etnica, l’oppressione, la russificazione forzata, l’omologazione culturale, le deportazioni, ad opera dei due peggiori totalitarismi che la storia europea ricordi arriva come un pugno allo stomaco. A prescindere da come la si possa pensare, leggere certi fatti fa salire un misto di rabbia estrema e di tristezza. Oggettivamente il Museo del KGB di Vilnius era curato molto meglio ma i contenuti sono, ovviamente simili, e l’effetto è il medesimo. Rientro in albergo per riposare in compagnia di una scia di pensieri.
Quando esco verso sera arrivo con un anticipo accettabile sulla riva del fiume per fare il giro in barca al tramonto. Questa è a due piani e può contenere almeno più di duecento persone ma siamo molte meno. Mi siedo sul fondo e il motore mi intossica alla partenza. Sono seduto accanto a quattro amiche per un addio al nubilato, visto che una ha il velo tra i capelli e sono tutte alticce, e ad una coppia di ragazzi giovani che hanno l’aria di essere al loro primo appuntamento. Lui porta il cappello all’indietro e sembra in imbarazzo e non sapere cosa fare. Faccio il tifo affinché la baci prima del rientro ma non accade. Ogni tanto mette la testa sul cellulare invece di guardare lei. “Prendile la mano!” penso. Del resto mi riconosco
in quella stessa “disinvoltura”. O almeno, di solito, al punto in cui è lui sono più sciolto. Credo. Comunque questa barca fa il giro dell’Isola di Lukavsala (dove, per inciso, avrei voluto andare a vedere i Rammstein suonare ma era sold out) passando a fianco della Torre della televisione e poi torna al punto di partenza. Il giro è altrettanto piacevole, meno costoso dell’altro (otto o dieci euro) ma forse vale la pena veramente solo al tramonto, su alcuni si può anche cenare o pranzare mi sembra di aver capito.
Quando rientro sono le nove e mezza. Scendo dalla barca e vado in cerca di un ristorante in cui mangiare. A dire il vero non ho tanta fame, il pranzo mi ha riempito e sto ancora digerendo il dolce ma cerco comunque un posto. Quello in cui mi avevano rimbalzato vicino alla Chiesa non accetta più clienti mentre al Petergailis, sempre lì vicino, la cameriera mi fa presente che c’è da aspettare almeno due ore per mangiare. Visto che sono le dieci e mezza mi sembra sensato declinare e cercare altrove ma dopo un po’ mi stufo e concludo che non ho nemmeno così tanta fame quindi mi faccio un giro notturno e poi rientro.
IV GIORNO : DOMENICA
Contrariamente ad ogni previsione non mi sveglio con la voglia di mangiare anche il cuscino.
Dopo la colazione vado verso il Mercato Centrale di Riga, incappo nell’Ambasciata italiana (che casualmente è vicina al primo ristorante in cui ho cenato) e raggiungo il Museo dell’Olocausto, anche questo ad offerta, un’altra tappa da non mancare. Di notevole impatto la stanza con le lanterne su cui sono scritte le vite di alcuni ebrei morti nei campi di concentramento e uno dei vagoni in cui venivano ammassati per il trasporto. In una mostra temporanea apprendo che durante la persecuzione della seconda guerra mondiale, nelle zone africane occupate molti musulmani difendevano e nascondevano gli ebrei.
Una volta terminata la visita vado al Museo Nazionale d’Arte Lettone che sta esattamente dalla parte opposta ma fa niente. Non sono qui per poltrire ma per camminare e vedere più cose possibile. L’ingresso al Museo è gratuito, credo perché è domenica, ma pago per andare a vedere anche la mostra temporanea nel piano interrato che, trattandosi di arte contemporanea, è la solita cagata concettuale da artisti compiaciuti intellettualoidi. Ai piani superiori invece ci sono dipinti di artisti lettoni con un certo fascino seppur completamente sconosciuti. Spiccano le foto di Egon Spuris e la personale dedicata a Hilda Vika, la quale occupa un’intero piano e ha la particolarità di avere il pavimento trasparente, quindi potrebbe creare qualche difficoltà a chi soffre di vertigini. L’edificio ha anche a disposizione due terrazze panoramiche che se avessi fumato mi sarei sicuramente fatto una sigaretta.
Al termine della mattina vado a mangiare qualcosa di “tipico” ed entro in un ristorante Uzbeko. Quando mai lo ritroverò dalle mie parti? Che io sappia l’unica volta in cui ne ho trovato uno mi trovavo a Mosca. Ordino un riso che non hanno e mi propongono il riso tradizionale uzbeko che, comunque, sarebbe stata la mia seconda scelta. Attendo osservando i palazzi, visto che mi trovo nel Quartiere Art Nouveau, e scribacchiando sul taccuino. Davanti a me sfrecciano persone sul monopattino che, a Riga, è uno dei mezzi più usati. Come si possono noleggiare le bici qui si trovano monopattini elettrici praticamente ad ogni angolo. A
mmetto di essere stato tentato di prenderne uno ma ci vuole l’app apposita (in lettone ho immaginato) ed esattamente da ieri sera il mio cellulare ha smesso di funzionare in roaming. Non solo non ha rete dati ma non ha proprio linea neanche per le telefonate e segnala “solo chiamate sos“. Che bellezza. Il cameriere mi segnala che il piatto è pronto ma non mi aspettavo che arrivasse anche il cuoco. Si mette vicino a me, prepara un supporto su cui appoggia la pentola, sistema i vari piattini e mentre lo guardo simulando un’espressione impassibile mi chiedo cosa cazzo abbia ordinato per scatenare questo cerimoniale. In realtà dopo aver servito me vengono portati i piatti ad altre persone e quindi intuisco perché il cameriere avesse spinto per farmi prendere quello. Che comunque è buono e mi incoraggia a prendere anche il dolce, delle specie di rombi tagliati, fatti di formaggio e pistacchi.
Il cellulare è fuori uso ma per fortuna avevo fatto uno screenshot della mappa per la destinazione del pomeriggio (scopro per puro caso di averla): le Prigioni del Kgb. Nel tragitto mi imbatto nella Chiesa di Santa Gertrude ma preferisco proseguire per evitare di trovare chiuso. Ad un certo punto in cui, ad occhio, mi pare di essere abbastanza vicino cerco di consultare lo screenshot e la mappa offline che avevo scaricato prima di partire e mentre armeggio sento una comitiva parlare ad alta voce ed entrare dentro una porta alle mie spalle.
Mi giro e vedo il Museo.
Entro.
La guida spiega che l’ingresso è libero e per visitare le prigioni bisogna pagare dieci euro e attendere l’inizio del tour guidato. La comitiva, che si rivela essere di tedeschi, fa un giro e poi se ne va. Di per sé l’esposizione è molto scarna, ha poco senso arrivare fino qui solo per quella e quindi aspetto la guida. Il giro è di un’ora e sicuramente vale la spesa anche se è qualcosa di sconvolgente. I trattamenti disumani riservati ai prigionieri politici, atti a distruggerli psicologicamente, sono qualcosa di inimmaginabile che arriva credo nei punti più bassi dell’animo umano. La sofferenza ed il dolore sono palpabili e devastanti, un’elenco di umiliazioni e di follia reale, non quella psichiatrica, ma quella dove l’uomo perde la sua ragione e trasforma la vittima in un’oggetto. E’ l’orrore e nulla più. Indescrivibile. Due sole cose. Una foto con sette ufficiali tedeschi impiccati, la prima esecuzione pubblica dopo secoli racconta la guida, una bravissima donna ricciola, che nasconde un retroscena. Pare che fosse
prevista l’impiccagione di sette persone ma una di queste si fosse sentita male prima del tempo per un attacco cardiaco e quindi fu sostituita con un altra, forse un semplice soldato, perché se erano previsti sette, dovevano essere comunque sette. L’altra è la camera dove i Lettoni ribelli venivano uccisi dai sovietici. Esattamente come a Vilnius si tratta di una camera con una porta in cui veniva fatta entrare la vittima, le si sparava alla nuca e veniva fatta uscire da un’altra apertura e gettata in un camion per fare entrare la successiva in modo che non si incontrassero. A spiegazione della procedura c’è esattamente lo spezzone dello stesso film che avevo visto in Lituania.
Abbastanza turbato faccio una lunga passeggiata per il quartiere Art Nouveau e poi lungo tutti i parchi che riesco ad incontrare. Me la prendo molto comoda e rientro molto più tardi del solito.
Per cena riprovo al Petergailis in cui la stessa cameriera mi riconosce e mi dice che, come la sera precedente, c’è da aspettare almeno un’ora. Sono le otto e mezza quindi per me è accettabile. Mi siedo all’interno perché c’è più spazio e meno gente. Sul davanzale a fianco del mio tavolo è pieno di statuine a forma di gallo come il resto del locale. C’è pure quello del Portogallo. Beh, il nome è “Petergailis”. Ordino una costina di Maiale alla Lettone, con formaggio ed erbette, purè di patate e un bicchiere di vino Lettone, l’unico che hanno a disposizione “Apple dry” che, ovviamente, sa di mele. Nell’attesa scrivo.
“Ho un’ora da passare. Sono senza roaming e mi ritrovo a guardare i passanti. Ragazzine che si fermano in mezzo alla strada per fare selfie. Un indiano che inciampa. Una signora vestita a quadretti che si ferma a ballare davanti alla mia finestra. Due anziani che si tengono per mano. Due giovani che si tengono per mano. Vedo il cappello tirato all’indietro e mi chiedo se non sono quelli della barca. Vedo tante persone che si tengono per mano. Mi chiedo Saranno veramente così tante, o sono io che ci faccio più caso?“
Arriva la cameriera che mi porta tre tipi di pane con altrettanti tipi di burro e finalmente assaggio il pane nero di Riga. Buonissimo, con la frutta secca. E mentre mi ammazzo di pane arriva il mio piatto. Buono, senza infamia e senza lode ma realizzo che il formaggio è stato un grosso errore perché mi si gonfia la pancia in maniera inverosimile. Credo di essere vagamente intollerante ma di non aver mai verificato. Pazienza. Solito giro notturno e mentre rientro mi fermo ad osservare due pub discoteca in centro. Portone aperto che prende praticamente una parete intera, è possibile guardare dentro. Divani eleganti, fumo e una postazione da ballo con una donna seminuda che balla. Ogni giorno che passa cerco di guardare l’interno, non tanto per sbirciare la donna (giuro) ma perché entrambi i locali sono, ogni volta deserti a prescindere dall’orario, mentre tutti i pub intorno sono colmi di gente, anche quello in cui si balla Rockabilly.
Che ci sia un orario diverso?
V GIORNO : LUNEDÌ
Ormai ho praticamente visto tutto il visitabile e il fatto di essere ancora senza telefono mi demotiva molto dall’andare fuori città. Visito finalmente il Duomo sperando che non ci sia la stessa donna che mi aveva ripreso l’altra volta. Ingresso cinque euro, entro ed approfitto di una guida che parla in italiano per qualche minuto, il tempo di sentire che in Lettonia furono i primi ad aderire alle tesi di Martin Lutero ed infatti il duomo è una chiesa luterana. Mi colpisce lo stemma della Compagnia delle Teste Nere appeso in una navata ma le speculazioni in proposito sarebbero fin ovvie. In un angolo c’è una targa con una l’indicazione di un punto fino a cui sarebbe arrivata l’acqua della piena della Daugava durante l’alluvione del 13 Aprile 1709. Visito il chiostro esterno e sto tutto il tempo che ritengo opportuno ma non è che ci si possa spendere tutta la mattinata.
Esco e prendo il biglietto per una mostra che promette 5000 opere d’arte moderna, da Van Gogh a Picasso. Figo, penso, una mostra temporanea come mi era capitato a Parigi, ormai quasi quindici anni fa quando trovai quella di Magritte. Penso sia un’occasione unica ed un segno del destino e prendo il biglietto anche se la dicitura “accompagnate da musica” mi lascia perplesso.
Esattamente tanto quanto il fatto che ci sia un orario e un’ora di tempo.
Poi leggo bene.
Ed è una mostra multimediale.
Ho la sensazione che sia una cagata fotonica e dopo esserci stato posso confermare che la è effettivamente, anche se molto originale. Praticamente si entra dentro questo spazio costituito da più salette con diversi tipi di divani e sia sulle pareti che sui pavimenti sono proiettati video di opere d’arte, divise per artista, costruite come delle elaborazioni grafiche con musica di accompagnamento. Classica ovviamente. Mi sembra di riconoscere Peer Gynt. Sul finire mi viene un sonno inaffrontabile. L’unico che credo abbia capito come godersi lo spettacolo è un bambino che si stravacca a terra sopra una poltrona a puf ma la nonna con cui era accompagnato gli rompe il cazzo per tutto il tempo fino a quando non lo convince a sedersi composto su di una poltrona accanto a lei. Quando si sposta penso di buttarmi io ma dopo poco la proiezione finisce.
All’una decido di optare per un locale nella piazza piena di ristoranti nella via della Casa del Gatto. Una delle attrazioni di Riga, ci sono passato davanti già dal primo giorno e tante altre volte. In realtà è più interessante la storia che la casa in sé. Sopra i pennoni ci sono uno o due gatti che sembrano stare sulle punte delle zampe e con la coda alzata. Pare che quella fosse la casa di un commerciante a cui era stato vietato l’ingresso alla camera di commercio e a spregio avesse fatto mettere i gatti con il sedere rivolto proprio verso l’edificio che ospita la camera di commercio.
Mi siedo in uno di questi locali dove ordino pesce alla lettone: pesce persico con purè di pastinaca, verdure grigliate e salsa al formaggio. Mi portano il solito tris di pane da scofanare nell’attesa del piatto che si rivela buono ma senza infamia e senza lode. Il pomeriggio vado al Museo delle Illusioni dove, essendo da solo pago sette euro invece di dieci e questo perché molte delle attrazioni sono godibili solo se si è in due. Essendo già stato a quello di Vilnius rimango deluso perché è molto più piccolo ma ci sono comunque attrazioni che vale la pena di vedere o fare, primo su tutti il tunnel in cui non si riesce a stare in piedi e si perde l’equilibrio a causa di un effetto ottico. Fighissimo, l’ho fatto un sacco di volte. Ormai ho fatto tutte le attrazioni quindi per il pomeriggio mi riservo di andare a vedere l’interno della Chiesa di San Gertrude e poi di passeggiare per le vie alternative e distanti dal quartiere Art Nouveau. Prima di partire mi siedo su di una panchina nei pressi del Monumento alla libertà. A fianco a me c’è un giapponese con la testa nel cellulare e un vecchio che tira becchime ai piccioni. O almeno questo mi sembra. Vedo che tira delle briciole prese da una busta di plastica. Poi scrive sul taccuino. Dopo un po’ si guarda in giro, prende la busta di plastica e ci sputa dentro. Lo rifà altre due o tre volte. E ogni tanto tira il contenuto ai piccioni.
Non voglio più sapere nulla e mi alzo per fare il mio giro.
Trattandosi dell’ultima cena in Lettonia vorrei mangiare bene e non guardare troppo la spesa e quindi decido di andare nel ristorante a cucina casalinga non lontano dal Castello. Il cameriere mi fa presente che c’è da aspettare se mi voglio sedere fuori, diversamente dentro i tavoli sono liberi. A me che me frega di stare fuori e quindi entro nel Zviedru Varti. Ordino un antipasto di tartine di aringhe del mar baltico affumicate su letto di uova, pomodori ed insalta, poi aringhe fritte con verdura e crema di spinaci, su letto di puré e sorbetto di mango. Tutto buonissimo, il posto in cui ho mangiato meglio. E vado pure di Black Balsam al Rum.
Uscendo inizio a girare a caso per le solite stradine con la reflex in mano e mi sento chiamare. Il cameriere del ristorante israeliano che mi saluta da un tavolino. Ricambio e continuo passeggiare finendo dalle parti del Saeima, il Parlamento Lettone, e la Cattedrale di San Giacomo. La camminata mi porta nella piazza dove suonano live, vicino alla Casa delle Teste Nere, e questa sera quando arrivo c’è Another day in Paradise. Proseguo per un po’ e arrivo fin sotto l’Opera Nazionale Lettone nei pressi della quale scatto le ultime foto prima di tornare indietro a dormire.
VI GIORNO : MARTEDÌ
Preparo la valigia, faccio il check out. L’aereo parte alle 21:35. Ormai ho visto tutto quello che volevo, ho girato il centro in lungo e in largo e non ha molto senso andare a vedere Jurmala o Segulda. Il cellulare ora ha ripreso a funzionare. Trascorro la mattinata a passeggiare senza meta. Passo davanti il ristorante in cui avevo mangiato la zuppa con il formaggio e le patate e il maiale e sento suonare “Lonely Day” dei System of a Down in una versione vagamente jazzeggiante.
Mi prende malinconia pensando che il mio tempo è finito e devo rientrare a casa.
Mi siedo al parco osservando le persone. Come ad Atene mi ritrovo con una coccinella sulla mano. Bianca. Speriamo porti ancora più fortuna. Quando si fa ora di pranzo tento il ristorante in cui mi avevano rimbalzato all’inizio, vicino alla Chiesa di S. Pietro. Non c’è nessuno, mi fanno sedere. Ordino costoletta di maiale alla Lettone. Buonissima, grassa, ma si scioglie in bocca, accompagnata da verdure e puré e decorata con frutti di bosco. Mentre mangio e mi guardo intorno mi viene in mente la frase “Le giornate sono migliori se ci sei tu“. Mi pare sia in Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet, il manifesto degli ultimi miei anni. Poco lontano da me un ragazzo suona la chitarra seduto sul marciapiede. Attacca con Mad World e poi con Wish you were here.
Beh, ci pensavo giusto qualche giorno fa. Tra moscerini e pesci.
Trascorro il resto della giornata sedendomi in contemplazione nei vari parchi cambiando panchine e posizione di tanto in tanto. Guardo le persone e poco per volta mi avvicino all’albergo per recuperare la valigia.
Verso le cinque vado in aeroporto con l’autobus 22.
Non vorrei proprio partire. Oppure vorrei partire di nuovo e non tornare a casa.