Dan Dunne (Ryan Gosling) è un professore giovane e moderno che insegna nella classe di storia ed allena la squadra di basket della scuola. Credendo di essere rimasto solo al termine di una partita si ritira nel bagno degli spogliatoi a fumare del crack ma in quel momento entra Drey (Shareeka Epps) una delle sue alunne. Scoperta la tossicodipendenza il rapporto tra i due si fa più stretto e…da qui in poi è meglio guardare il film.
Primo lungometraggio del duo registico Fleck & Boden, dopo un cortometraggio e alcuni documentari, ha tutte le caratteristiche per essere un pregevole film di nicchia della categoria “film indipendenti”, di quelli a budget ridotto ma con quello che scarseggia in altre produzioni: le idee. O la passione (forse più adeguata).
Esclusa la regia documentaristica (questa prima caratteristica da non intendersi necessariamente come un difetto) e tremolante (questa seconda caratteristica invece un po’ si), con dei giochi di messa a fuoco molto artigianali non sempre adeguati (archiviamoli come peculiarità stilistica), Half Nelson è senza dubbio un lavoro originale, con un’atmosfera di narrazione lenta e sospesa che, a tratti, sembra rallentata e obnubilata quanto la lucidità del protagonista tossicodipendente. L’aspetto migliore della costruzione è nel tentativo di rendere essenziale la storia, evitando musiche troppo invasive o smaccatamente alla ricerca della commozione e rimanendo, al contrario, esclusivamente sui fatti. La camera non gigioneggia ma, in maniera asettica, cerca di riprendere una realtà che parla da sé e che non necessita di didascalie. Cambiamenti, sguardi, sorrisi, dettagli, silenzi contengono già tutto quello che non ha bisogno di essere sottolineato.
Quello che emerge è il ritratto di un uomo alla deriva (evidentemente è il tema che mi attira in questo periodo, vedi Contrera) che lentamente sembra sprofondare sempre di più in una voragine, anche a scapito del suo talento per l’insegnamento il quale è, a tutti gli effetti, l’unica cosa in grado di mantenerlo in vita dentro una spirale che, diversamente, lo avrebbe portato molto più rapidamente verso una inesorabile autodistruzione. Dan è brillante, coinvolgente, quanto personalmente afflitto da un malessere interiore che lo porta ad un degrado della propria persona. Porta su di sé la croce di non poter essere un buon esempio, pur avendone tutte le capacità. Quando sostiene che “una cosa non fa un uomo” non suona come una giustificazione ai propri errori ma come quello che è: una verità. Certo è che, dopo una serie di colpi che gli fanno saltare via un pezzo per volta della sua persona, l’equilibrio viene meno, lasciandolo sempre più in una solitudine senza uscita che può tamponare con l’unico sistema che ha conosciuto fino a quel
momento, la droga e l’alcol. In un certo senso, lo spacciatore Frank (Anthony Mackie) non sbaglia quando dice che i “baseheads” (consumatori di crack e cocaina) non hanno amici.
In questo contesto si inserisce anche il percorso di consapevolezza di Drey attraverso una scena girata all’interno di un Motel, semplice ma d’impatto, che segna una deviazione rispetto al suo percorso. Il rischio di buonismo è effettivamente solo sfiorato, l’impressione è che le trasformazioni siano conseguenza di un processo sincero e quindi genuino nella sua messa in scena di due persone che cercano di prendersi cura l’uno dell’altra.
Ryan Gosling è veramente un bravo attore e non sbaglia mai un colpo. Poliedrico e versatile riesce a saltare da un ruolo all’altro senza perdere di credibilità (The Nice Guys, Blue Valentine, Come un tuono, The Believer, Lars e una ragazza tutta sua, Drive, Solo dio perdona, riesce persino a far apprezzare Le pagine della nostra storia) e senza cadute. In questo film si muove egregiamente tra le ambiguità di un personaggio dalla doppia faccia, quella rassicurante dell’insegnante carismatico e quella dell’uomo che gli sta dietro, fragile e dolorante, bisognoso di aiuto. In alcune scene il suo sguardo, le sue movenze o il sorriso esprimono da soli quello che non ha nemmeno bisogno di dire a parole. Non è un caso se fu nominato al Premio Oscar (che chiaramente non prese) e se da qui in poi la sua carriera fu in ascesa. Il cast in generale è adeguato e all’altezza anche senza particolari picchi, buona Shareeka Epps nel suo broncio perenne (non è stato possibile capire se sia o meno imparentata con Omar Epps, meglio noto come Eric Foreman della serie Dr.House) mentre Anthony Mackie è sostituibile senza grossa fatica, pur avendo una filmografia piuttosto nutrita anche se non particolarmente fenomenale (8 Mile, Million Dollar Baby, The Man – La talpa, The Hurt Locker, La leggenda del cacciatore di vampiri, Captain America: The winter soldier, Avengers: Age of Ultron).
Un film da vedere, se non altro per ricordare che i buoni esempi possono avere dei difetti: “one thing doesn’t make a man“.
Nel suo caso è vero, in altri casi però è anche vero il contrario.
A volte basta una cosa sola per fare un uomo.
Giudizio in minuti di sonno: Due o tre sparuti tentativi in vari momenti prima ancora di vedere 5 Giorni Fuori (di cui ero venuto a conoscenza successivamente) dopo il quale c’è stato un aumento della motivazione nel vedere Half Nelson fino alla fine. Tentativo fallito miseramente due volte nella stessa sera dopo nemmeno 15 minuti dall’inizio ma con un recupero pomeridiano del giorno successivo.