Undici solitudini è una raccolta di racconti il cui titolo è sufficientemente evocativo a spiegare quale possa essere il filo conduttore delle storie. Yates narra quindi di un ragazzino che cerca di integrarsi nella sua nuova classe, di un sergente addestratore e il suo plotone di uomini, di una moglie con il marito ricoverato in ospedale, di scrittori che inseguono un sogno, mariti frustrati, future mogli già non considerate prima del matrimonio, musicisti venduti, in un mosaico variegato di umanità immersa in uno stato esistenziale che li rende inequivocabilmente soli con sé stessi.
Richard Yates è noto più che altro per il suo primo romanzo, Revolutionary Road, che ebbe una trasposizione cinematografica nel 2008 con protagonisti Leonardo di Caprio e Kate Winslet, il quale, al momento dell’uscita nel 1961, ottenne invece un successo più di critica che commerciale. Sarà recuperato comunque in qualche modo negli anni a venire, ma da subito fu considerato un esempio di prosa da altri scrittori che lo presero a spunto per lo stile, come Raymond Carver e Richard Ford, in quanto anticipò quello che poi divenne noto come realismo sporco. Tra i suoi ammiratori e sostenitori in ambito letterario si ricordano anche personaggi come Kurt Vunneggut, John Cheever e John Updike, a riprova di quanto fosse riconosciuto il suo talento all’interno dell’ambiente.
Se da un parte il suo stile si caratterizza per i tratti realistici e minimali, la costruzione dei racconti ha un andamento ben definito che parte da un antefatto di presentazione, uno svolgimento successivo in cui apparentemente vengono definiti i ruoli dei personaggi e create le aspettative nel lettore che, solo alla fine, vengono ribaltate dai fatti nudi e crudi i quali hanno il peso della constatazione di una realtà spiacevole e tutt’altro che edificante. Il finale, infatti, capovolge spesso la sensazione iniziale scoprendo un’umanità piccola e meschina, a volte ingrata, ma anche profondamente sola nelle proprie frustrazioni e nei propri dolori, immobile, che non trova un punto di contatto con altri esseri umani. Sono, al contrario di quello che diceva John Donne (“Nessun uomo è un’isola”), delle isole di solitudine senza nessuna gloria. Nessuno di loro sembra provare dolore o consapevolezza della propria condizione ad eccezione forse di Myra (“Nessun dolore“) per un breve istante a seguito del quale poi tutto ritorna nelle consuete contraddizioni quotidiane.
Ciò che colpisce di più dello stile è proprio una certa freddezza nella narrazione, specialmente se lo si paragona a Raymond Carver in cui, al contrario, pur raccontando eventi piuttosto simili si respira una dimensione esistenziale profonda che rimanda a qualcosa di trascendente. A chiarire questo punto ci pensa Paolo Cognetti nella prefazione all’edizione di Undici Solitudini della Minimum Fax perché, a suo dire, la differenza tra i due sta nel fatto che, pur utilizzando narrazioni simili, Yates “non prova compassione” per i propri personaggi, a differenza di quelli di Carver i quali sono “raccontati con amore” e di conseguenza “è facile innamorarcene a nostra volta“.
Yates presenta della vittime, illudendo che siano alla ricerca di riscatto, per poi rivelarne tutte le bassezze e le assenze di speranze reali, vanificando ogni aspettativa di miglioramento di personaggi che, al contrario, sono completamente impantanati in una melma che non solo li imprigiona, ma da cui forse non hanno nemmeno alcuna motivazione per uscire. La domanda a questo punto diventa se la solitudine di questi personaggi sia negli occhi di chi legge o se i personaggi stessi, allo stesso modo, se la vivano a livello viscerale e non come una mera situazione di distacco da sé stessi.
“La perfezione se é facile da ammirare è difficile da amare.“
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.