Nigeria, Basso Niger. Okonkwo è un guerriero ibo temuto e rispettato, non solo all’interno del suo clan di appartenenza ma anche da quelli limitrofi. Conserva il teschio di un nemico ucciso e talvolta lo usa per bere. Vive nel suo compound con le mogli e i figli all’interno del suo villaggio e, dopo aver conquistato la fama come lottatore, si distingue come lavoratore indefesso nella coltivazione di ignami. Poco incline alla tenerezza, ha da sempre alimentato il suo lato aggressivo per potersi distinguere dal padre, da lui considerato molle e ozioso. Okonkwo è inoltre determinato a muoversi per diventare sempre più un membro di spicco del proprio clan ma la sua scalata sociale subirà un arresto imprevisto e troverà un ostacolo nell’arrivo dell’uomo bianco.
Orfano di letteratura africana (in realtà ho Il fischiatore i Ondjaki in attesa sul comodino), sento nominare dai Simpson (sempre dispensatori di cultura, ancora di più da quando ho iniziato a identificare i riferimenti a Moby Dick di cui sono disseminati) questo romanzo di Chinua Achebe, a me fino a quel momento completamente sconosciuto, e mi faccio prendere dalla curiosità perché è una parte del mondo di cui non ho mai avuto modo di leggere qualche scrittore.
Sono stato conquistato da una scoperta veramente notevole.
Saltando gli ovvi aspetti scatenati dalla curiosità di affrontare la lettura di un mondo totalmente diverso da quello a cui normalmente si è abituati a leggere e che quindi risulta, almeno inizialmente, esotico e misterioso, quello che rimane è l’incontro con un testo che, a distanza di sessant’anni, riesce a conservare la stessa freschezza e spontaneità di quando è stato scritto. Il tempo sembra non aver corroso e snaturato la narrazione perché essa non appare mai anacronistica ma semplicemente “sospesa in un tempo soggettivo infinito” che la rende sempre perennemente attuale. Non tanto per la storia in sé che, riferendosi a tempi passati non subisce deformazioni, ma per lo stile di scrittura utilizzato che è ancora fresco e pulito nella sua semplice limpidità.
Paradossalmente, autori americani relativamente più recenti come Richard Ford (per dire il primo che mi viene in mente) risultano essere molto più stantii e vecchi, al punto da far sentire tutto il peso di una, in realtà esigua, distanza temporale che ci separa dallo scrittore. Chinua Achebe, al contrario, sa essere dirompente ed energico come se Le cose crollano fosse stato scritto solo qualche anno fa, non risente di alcun cambio di registro rispetto al parlato quotidiano (tipo quando si legge qualcosa di risalente all’800) perché utilizza una prosa secca e diretta, ma allo stesso tempo evocativa ed estremamente visiva. Contemporaneamente conserva un contatto con le proprie radici attraverso quella che, personalmente, mi sembra essere una peculiarità delle modalità espressive nigeriane: l’utilizzo frequente di motti di saggezza popolare all’interno delle conversazioni quotidiane, per definire in maniera chiara una situazione con poche parole e comunicare immediatamente all’interlocutore il proprio pensiero, come mi è capitato di osservare in diverse occasioni.
Secondariamente, invece di spendersi in elaborate analisi psicologiche per delineare la personalità dei suoi personaggi, preferisce lasciar voce alle azioni e a pochissimi pensieri e approfondimenti, riuscendo in una perfetta opera di sintesi con cui delineare precisamente le sfaccettature di un personaggio che è estremamente più profondo e complesso di quanto appaia. Tutto ciò viene fatto capire da piccoli indizi, da silenzi, da espressioni, gesti, dalla sola presenza fisica di Okwonko in modo da far emergere una realtà interiore tormentata che non è solo bianca e nera, ma ha sfumature infinite. Le sofferenze del protagonista non vengono mai esternate, eppure sono ugualmente tangibili ed evidenti, sacrificate per mantenere l’alone di maschio guerriero invulnerabile che, a guardar bene, non è poi tanto lontano da una certa cultura presente anche nella nostra società odierna.
Non c’è solo la psicologia del personaggio ma anche una riflessione sociale sui meccanismi che governano i rapporti in tutte le strutture di aggregazione che qui sono presentate in uno specifico contesto ma sono facilmente estendibili a tutte le altre, nel momento in cui si parla di prestigio, strutture di potere, ritualità, superstizione, comando, maschilismo, religione e varie. Non solo, Chinua Achebe, in maniera estremamente incisiva e senza caricare di emotività eccessiva (controproducente e che avrebbe allontanato dagli scopi), pone sotto la lente le responsabilità dell’Occidente colonizzatore, senza polemica (per quanto l’intento possa giustamente esserci) e senza invettiva, ma con modalità efficaci e schiette. Questo nonostante l’impressione che si sia trattenuto e abbia deciso volontariamente di andare più veloce su questo aspetto senza approfondire. Prova ne è il fatto che la prima parte è molto più lunga della seconda e della terza messe insieme. Anche se, in un certo senso, rende comunque l’idea di quanto il cambiamento sia stato improvviso e immediato e di conseguenza traumatico e invasivo.
Del resto solitamente le cose crollano improvvisamente.
Semplicemente straordinario.
Soprattutto perché, per finire, risponde in maniera molto fantasiosa eppure anche poetica, alla domanda che tutti si fanno durante le torride estati infestate da zanzare: ma perché cazzo devono venire sempre a ronzare intorno alle orecchie, non possono pungere senza rompere i coglioni e lasciarci almeno dormire in pace?
“Si stiracchiò e si grattò la coscia dove lo aveva punto una zanzara mentre dormiva. Un’altra stava ronzando vicino alla sua orecchia destra. Si diede una pacca sulla testa e sperò di averla uccisa. Perché dovevano sempre dare fastidio alle orecchie? Quando era piccolo, sua madre gli aveva raccontato una storia in proposito. Ma era una storia stupida, come tutte quelle delle donne. Zanzara, diceva la storia, chiese a Orecchia di sposarlo, ma quest’ultima cadde a terra in preda ad un riso irrefrenabile. “Quanto pensi di poter vivere ancora?” chiese a Zanzara. “Sei già uno scheletro”. Zanzara se ne andò umiliato, e ogni volta che passava vicino a Orecchia le diceva che era ancora vivo.“(p.77)
L’inizio imperdibile di una trilogia famigliare.