Tropico del cancro – Henry Miller

Henry Miller è un aspirante scrittore spiantato, squattrinato e inconcludente che si è trasferito dall’America a Parigi. Qui trascorre le sue giornate con una serie di personaggi e amici altrettanto spiantati, squattrinati e inconcludenti, raccontandole in un’autobiografia torrenziale a cui aggiunge una serie di scopate a destra e a manca.

Difficile riassumere la trama in una maniera diversa da questa, considerando che si tratta di circa 260 pagine in cui l’autore non si discosta minimamente dalle quattro righe precedenti.

Tropico del Cancro è stato un libro manifesto degli anni ’70, uno di quelli che si doveva leggere per forza, un must tropico del cancroimprescindibile, le cui vicende passarono attraverso accuse di pornografia che ne ostacolarono la pubblicazione a diverse riprese ma, allo stesso tempo, alimentandone presumibilmente l’aura di libro “proibito” e “scomodo”. Suppongo che ai tempi avesse un dirompente effetto iconoclasta a proposito delle sue descrizioni del sesso, se collocato all’interno di un periodo bigotto e represso, ma la verità è che questo libro è una rottura di coglioni senz’anima. Premesso che la prosa di Miller è innegabilmente colta, come viene detto altrove, perché si tratta certamente di uno scrittore abile e talentuoso, il vuoto della narrazione è veramente devastante. Negli anni ’70  era una bandiera perché parlava di fica in un periodo in cui era proibito ma non ha, per esempio, la sostanza di Bukowski, il quale metteva anche lui la fica in ogni dove, ma come specchietto per distrarre da tematiche molto più profonde e sviluppate con una straordinaria sensibilità accuratamente mascherata.

Se in Bukowski il sesso è un distrattore, in Miller è la spinta principale, il pepe per portare avanti un piatto diversamente tutt’altro che saporito.

Innegabilmente padroneggia la scrittura, alterna incursioni che saltano dal presente al futuro, ogni tanto aggiunge qualche parte con interessantissimi, quanto fini a sé stessi, flussi di coscienza speculativi sulla realtà dell’esistenza dal notevole spessore, ma che sembrano un mero esercizio di stile o compiacimento intellettuale. Il taglio autobiografico molto personale della narrazione fa venire in mente Céline per la medesima scorrettezza e linguaggio crudo ma senza avere lo stesso sguardo poetico del cinico francese che, sarà pur stato una grandissima testa di cazzo, ma mobilitava una sensibilità non comune, lapidaria ed introspettiva.

Quando ci si confronta con un manifesto ci si aspetta di ottenere una rivoluzione epocale e non una delusione sulle parole del “tutto qui?”. Forse (sicuramente) è la cultura dominante in ogni periodo ad influenzare pesantemente, e magari in maniera impropria e tendenziosa, la scelta dei miti che rischiano quindi di essere designati più per lo spirito dell’essere anticonformista a tutti i costi, che per qualche reale merito ma, del resto, anche tutto ciò che aderisce ai canoni regolari finisce per essere irrimediabilmente merda, come è solitamente ogni forma di arte di regime. Altri miti si erano rivelati simili delusioni, probabilmente perché diversamente dai tempi in cui erano osannati, rispondevano ad esigenze ormai estinte negli anni a seguire, come On the road di Kerouac, il cui stile narrativo sembrava un po’ un freddo elenco da ragioniere che dice “sono andato qui, poi qui, poi li, ho fatto quello e poi questo” ma in cui, è vero, si respira l’esigenza di muoversi verso spazi aperti. Un altro libro al cui termine mi ero rotto i coglioni ma dopo il quale avevo sentito un insopprimibile desiderio di girare l’Europa in macchina, segno evidentemente, che qualcosa era arrivato in maniera chiara e prepotente.

Miller non ha trasmesso la voglia di trasferirmi a Parigi e di seguire uno stile di vita diverso, di approfondire una ricerca esistenziale verso nuove prospettive, che so, verso un anticonformismo autentico e un sano atteggiamento di ribellione, ma mi ha solo fatto pensare che non avesse veramente un cazzo da fare nella vita che perdere tempo vivendo come un parassita.

Un talentuoso ampiamente sopravvalutato (“capivo a colpo d’occhio che era un cretino, eppure i cretini a volte hanno il genio che occorre per ammucchiare una fortuna.“), almeno per quanto mi riguarda, questo romanzo manifesto di anni lontanissimi, osannato per questioni forse troppo imbevute di ideologia circostanziali per guardare le cose come stavano.

Del resto…”Non è difficile essere solo se sei povero e fallito. Un artista è sempre solo, se è un artista. No, un artista ha bisogno di solitudine.

Secondo me....

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