Lo chiamavano Jeeg Robot – Gabriele Mainetti

Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un ladruncolo che durante un inseguimento finisce dentro al Tevere per evitare di cadere nelle mani della polizia. Così facendo entra in contatto con dei fusti di materiale radioattivo che, dopo avergli fatto trascorrere una notte tra atroci sofferenze, gli daranno una forza sovraumana. Prima che abbia tempo di accorgersi dei suoi nuovi superpoteri, il vicino di casa Sergio (Stefano Ambrogi), un ricettatore coinvolto in un piano di rapina ad un portavalori, lo assolda per risolvere una questione di droga che non finisce come previsto e in cui lo stesso Sergiolo-chiamavano-jeeg-robot viene ucciso. Enzo si salva e torna a casa ma la figlia di Sergio, Alessia (Ilenia Pastorelli), una giovane ragazza con problemi mentali, gli si fa sempre più appresso e si stabilisce a casa sua pensando che lui sia Hiroshi Shiba, il protagonista del cartone animato Jeeg Robot (che insieme a Daitarn 3 aveva una sigla fighissima). Nel frattempo i complici di Sergio, comandati da Fabio Canizzaro detto lo Zingaro (Luca Marinelli), sono alla ricerca del defunto e incrociano la strada di Enzo che..e da qui in poi è meglio guardare il film.

Vincitore indiscusso ai David di Donatello edizione 2016, in cui l’intero cast ha fatto incetta di quasi tutti i premi disponibili (miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista,  miglior attrice non protagonista, miglior regista esordiente, miglior comparsa venditrice di gelato, miglior passante con i cani al guinzaglio, ecc…) ma non di quello per il miglior film che invece è andato a Perfetti Sconosciuti. Tutti premi decisamente meritati, sia quelli presi che quelli non presi. Infatti se il film di Paolo Genovese non meritava di vincere la categoria per il miglior film, Lo chiamavano Jeeg Robot non so quanto di più lo avrebbe meritato… e infatti non era nemmeno tra i candidati.

Il primo lungometreggio di Gabriele Mainetti infatti ha sicuramente molti pregi ma presenta anche una vistosa debolezza nella seconda parte in cui si percepiscono chiare lungaggini e cali di tensione  che avrebbero richiesto uno sfoltimento per tenere alto il livello di attenzione dello spettatore. Troppi fatti curati in maniera approssimativa rischiano seriamente di annoiare e imageswabasta: da un certo punto in poi (che non si può indicare per evitare spoiler) si perde il coinvolgimento e si diventa spettatori passivi in attesa del finale e questo perché il film si gioca in fretta i colpi di scena e a troppa distanza dall’epilogo. Raggiunge l’apice narrativo troppo presto senza riuscire più a risalire. Evidente calo che, per esempio, non si sente in Veloce come il vento (nonostante una chiara prevedibilità della trama) e questo perché generalmente la qualità non è determinata dal numero di colpi di scena ma dal modo e dalle tempistiche con cui vengono dosati, insieme ovviamente alle capacità narrative.

Ignorando volutamente (e giustamente) questa trascurabile imperfezione quello che rimane è decisamente figo. Sul serio. Gabriele Mainetti si dimostra ampiamente capace a rendere credibile una storia molto bizzarra e dai toni sempre in bilico tra il dramma e il fumetto parodistico, alternando momenti indiscutibilmente seri ad altri piacevolmente intrisi di un’ironia accennata, giocata molto sugli aspetti viimageswsivi e i loro contrasti (l’inquadratura di Enzo che se ne va con il Bancomat a braccetto) che potrebbe avere qualche eco di similitudine con l’ironia manzoniana. Nel senso che tutti ne parlano ma ai tempi del liceo è spesso un concetto molto evanescente e soggettivo del professore la cui altrui comprensione è spesso lasciata alla soggettività del caso (sarà che di Manzoni, a quei tempi, non fotte un cazzo a nessuno).

Dal punto di vista della ricerca visiva e dell’inquadratura il regista sa sicuramente il fatto suo e riesce a confezionare un film interessante e pregevole senza avere a disposizione i grandi mezzi Hollywoodiani di cui beneficiò Hancock, di cui riprende in parte la figura del supereroe negativo senza le particolari esaltazioni toccate alla figura di Will Smith. La differenza tra i due è che Enzo Ceccotti è una persona qualunque che si è ritrovata a gestire suo malgrado un’occasione molto più grande di lui e in quanto tale usa quella opportunità in un modo poco stucchevole e molto più meschino ma, forse, decisamente plausibile. Ed è esattamente questo aspetto a renderlo nettamente migliore e assolutamente distante dal piattume e dalla scontatezza primagesoposta dai produttori oltreoceano.

Al contrario proprio della loro pappina precotta, infatti, quello che emerge nel film nostrano è un ritratto umano che nei suoi difetti risulta irrimediabilmente più catartico del solito eroe senza macchia e senza paura oltre che più pregevole di tutti quei modelli irragiungibili che, pur partendo dal basso, spesso finiscono per ritagliarsi un posto sopra un alto piedistallo da cui, ormai irragiungibili, pontificano verso chi quella posizione la potrà sempre solo sognare… (si, qui mi sono fatto prendere la mano e forse sono andato fuori tema in preda a deliri..).

Tale punto di vista “terreno”, lontano da idealizzazioni, rende la storia credibile e realistica pur nella sua manifesta assurdità. O semplicemente più genuina e basata su una buona idea piuttosto che su effetti speciali. Di suo avrebbe potuto essere un film trash a tutto tondo e invece la lunga sequela di elementi positivi che hanno contribuito alla sua nascita giocano indiscutibilmente a suo favore per essere un film cult.

Ottimi tutti gli attori, prima di tutto Claudio Santamaria la cui bravura è ormai ampiamenteimagesq consolidata e riconosciuta, ma anche la coprotagonista Ilenia Pastorelli che già al suo esordio riesce ad ottenere un meritatissimo riconoscimento e questo nonostante abbia partecipato ad una edizione del Grande Fratello (…vabbé, ognuno ha i suoi scheletri…). Nel complesso cast adeguato e ben coordinato, solo Luca Marinelli non convince e sembra a tratti un pochino troppo sopra le righe ma si tratta di sfumature perché raggiunge l’intento di interpretare un completo folle totalmente imprevedibile.

Apice di paura con la scena del cellulare bianco ad inizio film ma poi perde di vigore con il passare del tempo e non stabilizza a sufficienza la sua fama di cattivo.

Assolutamente da vedere sapendo di essere tra la parodia intelligente, il trash e il film serio, che tuttavia non vuole, appunto, prendersi troppo sul serio. Arrivano nuovi segnali di speranza dal cinema italiano ma soprattutto il messaggio che si può fare qualcosa di bello con le idee e non solo con i soldi.

Per concludere la recensione di Zerocalcare.

Giudizio in minuti di sonno: Sveglio dall’inizio alla fine, senza nemmeno un pisolino di pochi minuti. Però ad onore del vero ho iniziato a guardarlo alle otto e mezza quindi le possibilità di dormire erano veramente poche.

2 pensieri su “Lo chiamavano Jeeg Robot – Gabriele Mainetti

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