Prétextat Tach (un cazzo di scioglilingua tutt’altro che casuale..) è un vecchio scrittore, obeso e misantropo (“Non amo vedere gente. Vivo solo non tanto per amore della solitudine, quanto per odio verso il genere umano“), insignito del prestigioso Nobel per la Letteratura che scopre di essere prossimo alla morte a causa di un rarissimo cancro alle cartilagini. Per questo motivo decide di concedere delle interviste per la prima volta nella sua carriera. I giornalisti selezionati per l’evento sono cinque ma, uno dopo l’altro, verranno tutti distrutti psicologicamente dalla ferocia e dal cinismo dello scrittore che troverà filo da torcere solo nell’ultimo dei suoi intervistatori, una donna per nulla intenzionata ad accettare i crudeli giochi del vegliardo.
Partendo dal presupposto che è tutt’altro che facile gestire un romanzo costituito quasi interamente da dialoghi (al punto che potrebbe tranquillamente essere una pièce teatrale [e infatti qualcuno ne ha tratto uno spettacolo]), Amélie Nothomb, al contrario, affascina e ghermisce senza troppe difficoltà. Grazie all’uso di un linguaggio che sa essere brillante, quanto limpido e colloquiale, la scrittrice belga tiene letteralmente per la gola.
Tutto nasce dal pretesto di far sfogare il mastodontico e poco malleabile scrittore misantropo che, in linea con le premesse, si dimostra un personaggio cinico, gratuitamente feroce (” << Signor Tach, posso pregarla di rispondere in tutta sincerità a questa domanda? Mi prende per un imbecille?>> / << Naturalmente. >> / << Grazie per la sincerità. >> / << Non mi ringrazi, sono incapace di mentire. [..] >> “), manipolatore e totalmente dissacrante, in un quadro di profonda cattiveria all’interno del quale si nascondono (im)prevedibili segreti svelati dal confronto con i suoi interlocutori. L’effetto generale è spesso comico, all’interno di ritmi narrativi orchestrati in maniera solo quasi perfetta perché, una volta capita l’antifona dei primi intervistatori, ci si stanca presto del gioco provocatorio di Tach; infatti è proprio a quel punto che viene introdotto l’unico personaggio che sa tenere testa allo scrittore ridestando l’attenzione nell’attesa della conclusione.
Il passaggio dalle necessarie premesse alla svolta narrativa avviene molto al limite della prevedibilità ma soprattutto della necessità. Questo perché dopo il quarto intervistatore doveva per forza accadere qualcosa di diverso, pena la caduta dell’attenzione e la noia. Amélie Nothombe è evidentemente molto cosciente di questo rischio e sa sfruttarlo a suo vantaggio alzando la posta ogni volta in cui è indispensabile. L’unico vero limite del suo gioco al rialzo è che, una volta assestatasi in un punto piuttosto alto, fatica a salire ancora di un gradino e inevitabilmente il finale non fa il botto eclatante che ci si aspetterebbe, finendo per non stupire più di tanto.
Di per sé la struttura generale non è originalissima perché calca uno schema noto (il confronto a due tra un protagonista e vari personaggi che falliscono miseramente, fino all’arrivo dell’antagonista che riesce a ribaltare le prospettive) ma, come spesso accade, la differenza si percepisce nel modo in cui vengono raccontate le vicende e Amélie Nothombe è in possesso di una chiara maestria.
Opera prima di una scrittrice ormai consolidata negli anni, si distingue sicuramente per brillantezza e fruibilità.
Notevole.
Curiosità e speculazioni: Il nome del protagonista è realmente esistente e viene da San Pretextat (Pretestato di Rouen), vescovo del 500, usato ovviamente per la sua etimologia che deriverebbe dal latino e sarebbe letteralmente “vestito con la toga pretesta” che era quella riservata a chi, nell’antica Roma, aveva diritto alla sella curulis, simbolo di potere. La “pretestata” è anche una tragedia latina interpretata da attori che indossavano la pretesta e si potrebbe andare avanti per parecchio tempo a trovare altri significati e riferimenti, per esempio alle catacombe, ma il senso del nome del protagonista, pur comprendendo tutte le sfaccettature elencate precedentemente che non sto qui ad approfondire, è ovviamente legato a “pretesto” che, etimologicamente deriverebbe da “ornamento” e “argomento ornamentale, non sostanziale” il quale riporta al vero senso in questo contesto ovvero alle reali motivazioni di un comportamento che vengono celate dietro ad un’apparenza di comodo, il pretesto appunto.
Ma c’è dell’altro.
Il cognome del protagonista, Tach, di per sé non sembra voler dire nulla di particolare ma se pronunciato velocemente insieme al nome riconduce ad una chiara assonanza evidenziata da un inciampo della lingua (provare per credere) e così “Pretextat Tach” diventa “Pretext Attack” , che definisce perfettamente il personaggio ed è anche un piacevole gioco di parole sicuramente intenzionale visto che Amélie Nothomb aveva vissuto diversi anni negli Stati Uniti.
Quindi, per stare ancora nel latino, un chiaro caso di nomen omen.
Se poi si vuole fare qualche speculazione più fantasiosa e azzardata, basti sapere che il libro è ambientato nei giorni che precedono la scadenza dell’ultimatum delle Nazioni Unite durante la Prima Guerra del Golfo..