Rabbit, run – John Updike

Harry Angstrom, soprannominato Rabbit, è un ragazzo di 26 anni sposato e con un figlio di due anni, Nelson. La moglie Janice, sua coetanea, è un’alcolizzata cronica rimasta nuovamente incinta e prossima a partorire. Harry è insoddisfatto della piega presa della sua vita ed ha la sensazione di aver perso troppe occasioni, compresa quella di poter diventare una stella del basket. Un giorno torna a casa dal lavoro e trova la moglie ubriaca allora, esasperato, decide di lasciare tutto e scappare via. Prende la macchina e guidando senza una direzione precisa finisce per ritornare nella sua città natale dove prende contatto con Marthy Tothero, il suo vecchio allenatore di basket, che, una volta appreso quanto era successo, decide di offrigli ospitalità per qualche giorno. I due escono a cena con due amiche di Marthy ed rabbit runè proprio in questa occasione che Harry conosce Ruth e inizia con lei una nuova relazione sperando in un diverso inizio, senza rendersi conto che non basta uscire da una porta per lasciarsi tutto alle spalle.

Insieme a Le correzioni di Franzen, Rabbit, run (in italiano ovviamente Corri, Coniglio) è sicuramente uno dei migliori romanzi che mi sia capitato di leggere recentemente.

Un romanzo sudato, per me come lettore, ma anche per Updike come scrittore.

Da parte mia le difficoltà sono state inizialmente nel riuscire a trovarlo perché quando aveva suscitato il mio interesse, almeno una decina di anni fa, era finito sfortunatamente fuori edizione (o quantomeno risultava temporaneamente irreperibile) fino a quando non mi sono rotto le palle di aspettare e l’ho comprato direttamente in inglese con conseguenti tempi di lettura molto più lunghi, decisamente biblici (determinati dal fatto che procedo per alcune pagine sottolineando le parole che non conosco e poi rileggo una seconda volta traducendo il tutto).

Ironia della sorte, nel momento in cui iniziai la certosina operazione di traduzione (a cui mi ero comunque già svezzato con Open City e Murder in the cathedral) scoprii in libreria che lo avevano ristampato.

Da parte di Updike invece si tratta di un romanzo sudato più che altro perché nelle prime edizioni gli furono suggerite dall’editore, che inizialmente accettò lo scritto con riserva, diversi tagli alla stesura originale (1959) per epurare tutte le parti con riferimenti sessualmente troppo espliciti (che ora sembrano normali o quasi castigati) per la bigotta America del 1960 (anno della pubblicazione) le quali avrebbero potuto portarli in prigione, come racconta a fine romanzo lo scrittore stesso nel saggio Afterword by the author. Manco a dirlo nell’Inghilterra “più liberal” vennero chiesti addirittura ulteriori tagli a quelli già fatti nella versione americana. Tuttavia Updike ricorda che la situazione era destinata a cambiare a breve in corrispondenza della pubblicazione per la prima volta negli Stati Uniti degli scandalosi L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrance e Tropico del Cancro di Henry Miller (sebbene fossero stati scritti rispettivamente negli anni ’20 e negli anni ’30), eventi che causarono la revisione delle misure di censura e lo convinsero a proporre la versione integrale pubblicata infine nel 1962.

Oltre a questi due noti, Rabbit, run ha anche un legame con un altro libro famosissimo dell’epoca che è On the Road (1957) di Jack Kerouac. Seppur Updike dica di non averlo letto, riconosce il filo critico che li unisce, ribadendo la sua avversione all’apparente messaggio di tagliare con tutto e tutti. Il suo primo romanzo è infatti proprio rivolto a dimostrare, scansando ogni portata idealistica in favore di un crudo realismo, quali siano le conseguenze della scelta di mollare tutto e andarsene: lasciarsi dietro solo persone ferite. Rabbit, run è un romanzo stilisticamente molto fresco (a mio avviso anche migliore di On the road che mi è sempre parso un freddo elenco di spostamenti redatto da un ragioniere) e ben dosato nell’alternare descrizioni, stati emotivi ed avvenimenti critici con una intrinseca dinamicità naturale. Profondamente coinvolgente, l’autenticità del narrato possiede un fluire scorrevole (nonostante i rallentamenti dell’operazione di traduzione durata quasi un anno [per leggere in questo modo con la dovuta calma bisogna trovare almeno un paio di ore libere!]) che affascina senza l’uso di elegantismi o di compiacimenti narcisistici da talentuoso che vuole esibire la sua bravura e, proprio per questo, la sua prosa risulta essere molto diretta, senza fronzoli ma allo stesso tempo dotata di uno sguardo intimo sulla vita, sull’identità delle persone, non esente da critiche sociali rivolte all’America e alla religione (es. Il reverendo Eccles che difende il matrimonio perché “è un sacramento” anche nel caso in cui sia un “cattivo matrimonio”) nel delinearne un ritratto impietoso quanto vero.

C’è una carica vitale estremamente tangibile in queste pagine, una illusione malinconica di un personaggio infantile e un po’ patetico che si aggrappa disperatamente a vecchie speranze e glorie per poter riscattare un’esistenza prematuramente condannata alla fine e alla frustrazione di vivere su binari prestabiliti. Angstrom è un irresponsabile sognatore che ribellandosi alla bruttura della propria vita sceglie di scappare di fronte al dolore e al fallimento nella speranza di ricominciare. Non c’è nulla di male nello scappare di per sé, la fuga non è necessariamente un’onta quando non si può più cambiare niente, ma solo se questa non coinvolge altre persone e delle responsabilità. Quella di Angstrom non è infatti una extrema ratio ma una condotta quotidiana di fronte alle difficoltà, che lo rende vile nel devastare le vite di tutti per assecondare solo i proprio capricci (“The world just can’t touch you once follow your instinct“), senza inoltre avere nemmeno un’idea chiara di quali siano i suoi desideri. E’ un “uomo” immerso nel panico più totale che sa solo fuggire in un moto che non lo porterà da nessuna parte perché non è in grado di definire i limiti della sua persona, le sue aspirazioni e i suoi desideri e finisce per essere vittima di una tensione che lo conduce a fare spola verso tutti gli estremi. La voglia di riscatto e l’alone di vittima lo rendono “simpatico” anche nelle sue malefatte (tutti ci siamo sentiti intrappolati al punto di mandare tutto a fanculo) almeno fino a quando non si rendono concrete le conseguenze sugli altri. In particolare sulle figure tragiche di Ruth e Janice, donne devastate dalla sofferenza e dall’abbandono, verso cui si prova un misto di pietà alternata al fastidio per la loro inettitudine, specchio della stessa incapacità di stare al mondo di Harry.

Del resto il suo stesso soprannome indica non solo un corridore che impone un ritmo veloce ad un compagno di squadra su una competizione sportiva di lunga distanza (Trad. da qui) ma anche il significato riferito ad una persona più tradizionale e comune usato pure in italiano.

Nomen Omen, no?

Un romanzo morale unico con cui viene inaugurata la saga (seppur l’intenzione fosse quella di un’opera unica) di Harry “Rabbit” Angstrom (portata avanti con Rabbit redux, Rabbit is rich e Rabbit at rest), specchio di un’america smarrita e in cambiamento, in crisi d’identità con i propri valori che nel pieno della propria gioventù si scopre prematuramente vecchia (“Some die young; some are born old“) e intrappolata in un destino mediore o forse, ancora indefinito.

Secondo me....

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