In una Sicilia post Apocalittica datata 2020 in cui tutti gli adulti sono morti a causa di una devastante epidemia conosciuta come “La rossa” due fratelli, Anna e Astor, provano a sopravvivere nella desolazione di un mondo totalmente abbandonato a sé stesso e completamente nuovo. Ad accompagnarli nell’esplorazione della realtà c’è solo un quaderno scritto dalla loro madre prima di morire, in cui è raccolta una summa delle regole che devono rispettare per non morire prematuramente e che li aiuterà ad affrontare una realtà ormai irrimediabilmente ridotta allo stato selvaggio.
L’ultimo romanzo di Ammaniti strizza l’occhio a serie come The Walking Dead (e tutta la branca filmica da post apocalisse epidemica, zombie o simile, chi più ne ha più ne metta) e a libri come La strada di Cormac McCarthy (nello svolgimento e nelle ambientazioni) o Il signore delle Mosche di William Golding (nelle tematiche legate al pessimismo, alla violenza, al male, alla superstizione, al potere..), usando una fantomatica “rossa” come pretesto per eliminare totalmente il mondo adulto per potersi concentrare esclusivamente su quella parte dell’esistenza su cui è primariamente focalizzata la sua poetica: l’adolescenza. La malattia colpisce infatti solo gli adulti e chiunque lo diventi crescendo perché, alla fine, crescere è una malattia che uccide. Le persone si trasformano in entità peggiori e sicuramente il crescere uccide l’adolescenza al termine del passaggio alla vita adulta. Ammaniti ci narra la sua ultima storia nel suo tipico stile surreale ed imprevedibile che non si pone limiti di credibilità ma che, al contrario, trova proprio la sua stessa credibilità nella narrazione e nella sospensione dello scetticismo perché le sue regole sono dettate dall’inizio e il lettore vi si adegua subito, a differenza delle volte in cui stravolge tutto in corso d’opera “sbulaccando” come un pazzo.
Confeziona quindi un romanzo scevro da quei personaggi adulti, spesso meschini, che contaminavano il suo mondo. In tutti i suoi scritti sono spesso i bambini e l’infanzia nelle sue forme ad essere messe sotto il riflettore in mondi governati da adulti miserabili in cui la parte del “grande” viene assunta molto spesso dai bambini mentre al loro sguardo spetta il compito di filtrare una realtà alla deriva gestita da incapaci privi di qualunque grandezza che non sia esclusivamente anagrafica. Gli adolescenti non sono migliori, sono pur sempre dei piccoli adulti che crescendo andranno ad unirsi alle schiere degli adulti, ma conservano a volte una specie di luce di innocenza che ancora funge da faro nella distinzione tra cosa è bene e cosa è male. Anna può essere visto come la metafora dell’abbandono sui bambini, seppur a causa di una misteriosa epidemia, con i suoi effetti devastanti sulla psiche di chi viene abbandonato e che rischia di regredire a stadi primitivi e bestiali con tutte le conseguenze violente che ciò implica. Questo avviene quando non c’è un passaggio di consegne, una sorta di eredità affidata tra genitore e figlio. Anna e Astor sono soli dopo la morte della madre ma questa trasmette loro un insieme di regole, di valori, che ne disciplinano la vita, quindi non sono realmente abbandonati ma interiorizzano, al contrario e a differenza di altri personaggi, la figura genitoriale trovando in seguito la propria indipendenza. La vita separa nei percorsi sulla lunga distanza, ma se qualcosa viene lasciato la regressione non avviene. La paura del figlio abbandonato e lasciato solo di fronte all’ignoto è chiara e tangibile ma allo stesso tempo si percepisce la solidità degli insegnamenti e del ricordo che, anche nella nostalgia, fungono da base per proseguire oltre in un mondo pericoloso, selvaggio ed imprevedibile governato da bambini allo sbando senza una guida. Minore è la trasmissione di conoscenza, il lascito ereditario, il contatto diretto con la generazione precedente portatrice di esperienza e, comprensibilmente, maggiore sarà l’abbrutimento e la regressione ad uno stadio primitivo, pulsionale, gerarchico, selvaggio e violento.
Quello del personaggio di Anna è un percorso di formazione e di crescita che assolutamente si respira chiaramente in queste pagine. Si parte leggendo evidentemente di una tredicenne che, proseguendo, cambia fino a non risultare più la stessa in maniera decisamente molto evidente. Non ragiona più come un’adolescente ma come una donna. Eppure l’arco di tempo trascorso è comunque brevissimo. Anna semplicemente cresce attraverso l’esperienza che la modella sulla forma dell’ambiente circostante.
Non il suo romanzo migliore, che fino ad ora rimane Ti prendo e ti porto via, e nemmeno il peggiore, che continua ad essere Branchie; nonostante il paesaggio apocalittico non è nemmeno il più nero e cupo, che rimane Come dio comanda. Lo stile è sempre inconfondibile con una moderata tendenza all’eccesso, esageratamente esasperata in Che la festa cominci (in cui veramente ha “sbulaccato” oltre misura), diluita in un ampio respiro di disillusione che spesso è il suo marchio di fabbrica. Non ha la delicatezza di Io e te, la maturità di Io non ho paura e nemmeno l’implicito divertimento un poco folle di Fango ed Il momento è delicato.
Anna è diverso. Sospeso. Forse il primo di una sequenza, forse no. A volte coinvolgente, a volte distante e lento. Disilluso e speranzoso, crudele ed ingenuo. Un po’ come la vita, perché in fin dei conti “La vita non ci appartiene, ci attraversa“.
Crescere invece è una malattia.