Hubert Lubert sta lavorando alle prime pagine di un romanzo quando il protagonista, Icaro, svanisce nel nulla. Lo scrittore ingaggia allora un investigatore per ritrovarlo mentre il personaggio si ritrova a passeggiare tra le strade di Parigi, conoscendo persone e facendo esperienze di vita reale.
Romanzo scritto interamente sotto forma di dialoghi e quindi sostanzialmente come se fosse un testo teatrale, Icaro involato conserva qualche spunto surrealista (movimento a cui Queneau aveva inizialmente aderito e di cui, presumibilmente, rimarranno alcune influenze anche dopo la rottura con Breton), contributo sostanzialmente riducibile nel pretesto di partenza, ma incentrato sulla sperimentazione e sul gioco. Gli echi dei “personaggi in cerca d’autore” inevitabilmente vengono subito alla mente in questo libro in cui, tuttavia, avviene l’esatto contrario visto che è l’autore a cercare disperatamente il personaggio senza il quale non riesce a proseguire la sua opera. Il protagonista del romanzo di Hubert infatti fugge via inspiegabilmente dalle pagine rimaste incautamente aperte e si nasconde nella vita reale, accolto come una persona qualunque dalla gente.
Perché alla fine anche le storie inventate e la fantasia affondando nell’esistenza e nell’esperienza e come tali non sono quindi meno vere della carne tangibile.
Il viaggio di questo spaesato Icaro è una scoperta meravigliosa, fuori dai binari di un destino prestabilito da un creatore esterno, alla ricerca di un proprio senso di indipendenza da una mente creatrice pronta a determinare ogni singolo passo della propria creatura. E se alla creatura certe cose non andasse di farle? Quali sono le sue volontà? (Inevitabilmente mi viene in mente il racconto breve Montalbano si rifiuta di Andrea Camilleri in cui il celebre commissario di Vigata interrompe la narrazione e telefona all’autore per protestare contro l’inaudita violenza delle vicende di cui era protagonista.) Ecco cosa succede se la si lascia libera dalle redini del suo scrittore. Ma quanta distanza può esistere tra il creatore e la sua creatura? Il rapporto tra i due non è effettivamente risolvibile con un semplice distacco perché la relazione continua a permanere e forse, in un qualche modo, i fili invisibili momentaneamente divenuti molli con la distanza, in qualche modo iniziano a tendersi nuovamente fino a ristabilire un legame (“La sola cosa che non mi va a genio negli aquiloni é lo spago che li trattiene“) che prima o poi lo riporterà esattamente dove avrebbe dovuto stare, strattonando il lungo guinzaglio che lo teneva legato per il collo.
Quali sono i nostri margini di indipendenza dal contesto? Ma anche solo di indipendenza dalle proprie origini.. Il rapporto dello scrittore con il suo personaggio, in fin dei conti, è molto simile a quello di un figlio con il genitore a cui in un qualche modo (per somiglianza o per contrasto reattivo) rimane legato in maniere spesso inconsapevoli come quando ci si ritrova a ripetere macchinalmente gesti che non ci appartengono ma che ci sono stati trasmessi e che ripetiamo per inerzia fino a quando non si riesce a realizzare che, semplicemente, non sono nostri.
Probabilmente non tra i romanzi che lo resero famoso per le sue sperimentazioni stilistiche e ispirazioni legate alla matematica, è comunque una buona lettura, scevra da particolari approfondimenti psicologici ma che si esprime al meglio attraverso il bizzarro, l’ironia e un pretesto surreale godibile e abbastanza originale in un breve volo di poche pagine. Spunto molto divertente, svolgimento senza particolari entusiasmi in un libro che tuttavia ritrova la poesia nella propria conclusione.
Notizie a vanvera: Queneau frequentò alcuni dei maggiori scrittori dell’epoca, Prévert, Breton, Miller, Sartre, Boris Vian (con cui fondò un club per appassionati di fantascienza e con cui condivise l’adesione al Collegio di Patafisica), Camus e altre figure artistiche di spicco in diverse forme espressive tra cui Picasso nella pittura, Buñuel nel cinema e Doisneau per la fotografia a cui chiese di essere ritratto in una via qualunque perché lo scrittore si sentiva a suo agio solo in luoghi anonimi.