I genitori lo avevano chiamato come colui che era “uscito dalle pagine del suo promotore” ma i più lo ricordavano come quello che si era spinto troppo oltre il limite del consentito. Di giada vestito, indossava la noia di tutti i giorni con finta disinvoltura mentre sorrideva alle vetrine dei negozi durante interminabili passeggiate che non lo conducevano da nessuna parte. Veniva dai luoghi delle nebbie, dove il sole annegava nella foschia e smarriva i suoi raggi tra le braccia umide del tedio. In sostanza, si rompeva parecchio i coglioni. Le giornate si susseguivano inconcludenti senza scopo, senza nulla da fare, senza meta. Niente aveva realmente importanza perché non esisteva attività capace di coinvolgerlo. Sapeva solo percepire un profondo grigiore malinconico che trasudava dai pori della sua pelle fino ad impiastricciare i suoi vestiti, sempre pregni di quest’umore vischioso che poi sgocciolava dalle maniche della sua camicia lasciando una scia liquida sui marciapiedi su cui poggiava le suole. E sulla cui oleosità finiva per scivolare e cadere a terra ogni due passi. Era triste, percepiva la propria vita come una proiezione sopra uno schermo lontano, così lontano da non potervi fare nemmeno da spettatore. Per non parlare poi di prendere una confezione di pop corn, nemmeno poteva arrivare a scorgere chi li vendeva!
Il tempo non aiutava. La nebbia non era solo nelle strade, sulle colline, ma entrava educatamente nelle case della gente come solo gli ospiti indesiderati sanno fare. Si insinuava nella testa delle persone passando attraverso le orecchie e condensava i pensieri di ognuno in tante piccole gocce di rugiada che poi suggeva dalle pareti dei loro crani intorpiditi. Il protagonista di questa storia era ormai talmente prossimo al sonno da essere il più rallentato di tutti. Almeno fino a quando durante un aperitivo, in cui ovviamente si annoiava a morte e meditava timidamente il suicidio per riuscire finalmente a sentire qualcosa che non fosse una sorda indifferenza alla vita, captò la conversazione ad un tavolo vicino in cui i due avventori discorrevano delle stupefacenti proprietà terapeutiche del santone entusiasta. Pare che la vitalità del santone fosse così contagiosa da spingere i morti al riso convulso e le statue a ballare il Charleston anche quando nei locali si suonava musica metal. Un uomo paralizzato che trascorse una settimana insieme a lui, all’improvviso si alzò in piedi posseduto dalla smania di fare come se avesse pippato coca. Lavorò ininterrottamente per un mese e in quel periodo costruì due ospedali, una fabbrica di stuzzicadenti, una di caramelle gommose, un prototipo di moto, inventò un brevetto per un nuovo materiale plastico e pulì casa sedici volte. Al giorno. Fu abbattuto all’alba del primo giorno del mese successivo da una portaerei americana mentre cercava di raggiungere a nuoto le coste del Paraguay. I figli non ebbero nemmeno il tempo di fargli presente che il Paraguay non ha nessuna costa.
Questi resoconti convinsero il tristone in catalessi, che ormai per il sonno improvviso picchiava continue testate sui banconi del bar ogni volta in cui si addormentava, a raggiungere il santone entusiasta per poter essere finalmente felice dell’esistenza. Arrivò quindi nella fattoria tra le campagne dove si era ritirato per diffondere i suoi insegnamenti di felicità e coltivare dell’ottimo grano perché, nonostante tutto, le occupazioni dell’eremita erano comunque molto quotidiane, con la chiara intenzione di rimanervi fino a quando non sarebbe diventato entusiasta della vita. Il santone lo accolse subito con un ampio sorriso i cui angoli giungevano fin sulla fronte e senza consentirgli di parlare gli espose nelle tre ore successive tutte le bellezze del mondo prima in ordine crescente, poi alfabetico, decrescente e di nuovo crescente. Al termine dell’elenco rise gioiosamente da solo per due ore e poi decantò tutte le varianti di quanto fosse bella la vita nelle varie declinazioni linguistiche. Compreso il trudezko, lingua mesopotamica esistita per soli 10 anni durante il regno assiro di Assurbanipal, incomprensibile anche a coloro che la usavano. Ad ogni tentativo di parlare da parte dell’ospite il santone subito improvvisava balletti gaudenti e canti gioiosi muovendosi in ogni direzione, saltando come un ossesso e gridando a squarciagola con forte partecipazione. A volte si commuoveva a tal punto da dover abbracciare uno per uno tutti gli esseri viventi nell’arco di una decina di chilometri per diffondere l’amore universale e rendere tutti partecipi del suo stato di affettuosità. Terminato il giro di abbracci a volte lo riprendeva dall’inizio perché sentiva di non aver dato abbastanza. E poi proseguiva con tutte le creature inanimate fino a giungere a quelle invisibili e immaginarie. Sorrideva sempre e comunque, qualunque cosa gli succedesse o gli venisse fatta. Se ne accorse di prima persona il tristone che dopo un paio di giorni iniziò a non sopportare più il clima di eccitazione ed entusiasmo del santone. Stufo di quel sorriso persistente iniziò a percuoterlo furiosamente sulla faccia con una schiumarola per non dover più vedere quell’espressione beota e insensata. Ma quello continuava a ridere. Lo prese a calci, a sprangate, a pizzicotti, gli raccontò aneddoti deprimenti, barzellette inaffrontabili, lo azzoppò, lo accecò, gli pestò le dita una ad una, ma quello non smetteva mai di ridere.
Non si fermò nemmeno quando gli passò sopra con la mietitrebbia.