Nella pensione Miramar di Alessandria d’Egitto nessuno era preparato all’arrivo della bella contadina Zahra. La ragazza, in fuga da un matrimonio combinato e da un ambiente opprimente, viene assunta come lavorante dalla locandiera Mariana, donna caparbia di origini greche, e non passa inosservata agli occhi di nessuno degli ospiti della pensione: Amer Wagdi, anziano giornalista in ritiro, il latifondista Hosni ‘Allam, Mansur Bahi, annunciatore di Radio Alessandria, e il donnaiolo Sarahan al-Buheiri, le cui vite ruotano per un breve frangente intorno ai destini della giovane in cerca di riscatto e di indipendenza.
Vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1988 “che, attraverso gli impianti ricchi di sfumatura – ora con limpide vedute realistiche, ora evocativamente ambiguo – ha formato un’arte narrativa araba che si applica a tutta l’umanità” (da Wikipedia), in questo breve romanzo Nagib Mahfuz gioca con le prospettive e i punti di vista raccontando una stessa storia vista successivamente dagli occhi di ognuno degli ospiti della pensione fino a svelare attraverso il loro personale contributo una vicenda i cui contorni si definiscono solo dopo il completo accumularsi di dettagli utili a delinearne la chiarezza. Quello dello scrittore egiziano è un breve puzzle strutturato seguendo una sequenza di rimandi in cui ogni personaggio prende forma non solo attraverso i propri pensieri ma anche con quelli degli altri avventori su di lui, fino a restituire un ritratto contraddittoriamente realistico e completo dei protagonisti perché, se è vero che siamo quello che noi pensiamo di essere, è anche vero che siamo quello che gli altri pensano di noi (in piccola o grande parte) ma non è necessario che entrambi i pensieri coincidano. La chiarezza è sempre un insieme di prospettive in cui la verità è multiforme e sfaccettata e la risultante di una somma di tante soggettività, a volte, può condurre a qualcosa di oggettivo. Tuttavia non solo persone e i loro intrecci sono i protagonisti di questo libro ma anche la città di Alessandria d’Egitto, decadente e in evoluzione, e la stessa società egiziana di cui tutte le vicende narrate fungono da allegoria simbolica (a quanto pare) delle sue nuove direzioni di rottura con il passato al fine di rivolgersi invece verso il modernismo e la crescita.
La prosa di Mahfuz è elegante e malinconica, in cui si alternano momenti riflessivi e profondi ad altri più leggeri in una lettura che scorre fluida e tutto sommato piacevolmente sebbene non riesca mai ad essere qualcosa di realmente indimenticabile e da lasciare senza fiato, pur all’interno di cornici suggestive e poetiche. L’espediente del raccontare la stessa vicenda dalle varie prospettive è sicuramente interessante e ben gestito ma allo stesso tempo non aggiunge nulla di particolarmente eclatante o di realmente funzionale nell’ottica della narrazione. Questo comunque non impedisce che alcuni contenuti rimangano, relativi per esempio all’ottica di un’evoluzione dettata dal cambiamento (“L’equilibrio si riacquista solo dopo uno sconvolgimento totale.“), alla facile possibilità di cadere in errori (“La disperazione spinge all’imprudenza, spinge il malato a curarsi con un altro male.”) e ad una morale che sa reinterpretare le proprie radici e fare tesoro del passato, anche spiacevole, perché “chi conosce le ingiustizie conosce anche, come per incanto, il giusto a cui aspira.“