In giro usava sempre dire di essere nato “da una splendida rosa violacea invernale sbocciata dalla schiuma del miele” ma, in realtà, “Il Grande Pagliacci” era nato dai liquami di una cloaca oscura seppellita lontana dalla volta celeste da diverse spanne di terra.
Inevitabilmente tutti finiamo per allontanarci dalle nostre origini ma mentre alcuni lo fanno migliorando se stessi altri semplicemente provano a celare con litrate di costosissimi profumi il fetore che si portano dentro. Ma il tempo necessario per cui questo si rifaccia sentire è sempre molto breve. Gli odori non si lavano via se vengono dall’anima. Questo era “Il Grande Pagliacci”: il massimo rappresentante e il più autentico prototipo del suo stesso luogo di nascita mascherato da orpelli luccicanti, vestiti eleganti e profumi inebrianti. Era un vero mago nello sviare l’attenzione dagli aspetti d’importanza e, come ogni mago, era un’illusionista dell’apparenza e un fenomeno nell’attribuire altrove le proprie lacune umane da nullità. Il suo ottuso fare intellettualoide era colmo di parole roboanti e infiammate, scagliate dal pulpito immaginario da cui lanciava moniti di civiltà, arte e superiorità affascinando il suo seguito ingenuo, accecato da una artificiosa luce senz’anima e da una compostezza formale di bastoni e mantelli, figli di un’impostura blasonata senza tempo, provenienti dal luogo comune dove la tuba era ancora sinonimo di eleganza e non della sua cialtronaggine sbandierata all’eccesso del ridicolo. Da un alto trono di paglia autoconferitoproclamatosi, come del resto tutti i suoi riconoscimenti, i suoi tuoni partivano scagliati solo alle spalle delle vittime perché troppo vigliacco per lanciarsi contro un pari peso o affrontare in campo aperto il nemico. Lontano dal suo pulpito immaginario, in cui attaccava esclusivamente chi non poteva rispondere, ero solito strisciare sinuoso, nel suo stesso viscidume molliccio e appiccicoso, agendo nell’ombra all’insaputa di tutti. Non solo dei suoi stessi migliori amici verso cui aveva sempre parole di sprezzante superiorità perché lui, in definitiva, era “già arrivato“, ma anche della sua stessa compagna dagli occhi a cuoricino ripetutamente tradita. Ma questa non era certamente la sua nota condotta ufficiale, anzi, di contrasto era pubblicamente prodigo di complimenti e affermazioni auliche intervallate da massime espressioni di politica illuminata per abbagliare e distogliere dal profilo di manipolatore e dall’unica cosa che per lui contava realmente: il suo ego desideroso di apparire. Meglio se leccato di complimenti. Qualunque tipo di complimenti. Tutto gli era dovuto, il rifiuto non era accettabile. Affronto atavico e profondo che svelava tutta la fragilità del suo narcisismo mascherato di onnipotenza. Meschino, mediocre, ignobile. Questo era e per questo motivo si affannava a dimostrare in ogni momento di essere qualcuno di diverso da quello che, in qualche modo, percepiva chiaramente di essere: un nessuno, una nullità, un pessimo attore in una recita improvvisata. I grandi proclami svelano grandi debolezze quando non si possono raggiungere quelle stesse altezze verso cui si scagliano le proprie parole. Ma di tutto questo non si faceva problema perché cercando di essere qualcuno, convinceva facilmente il suo entourage di essere veramente quel qualcuno e di conseguenza ancor più si credeva proprio quel fittizio qualcuno, senza tuttavia ovviamente mai esserlo, troppo ebbro di applausi profani che scrosciavano mentre si esibiva sotto le luci della sua ribalta personale, vestito di tutto punto con il suo frac stantio da snob impotente a fasciare un fisico unto e budinoso.
Poco importava che la fredda erudizione mascherata da passione recitata convivesse parallelamente con la segreta abitudine di trascorrere i suoi momenti realmente più sinceri ad infilarsi le dita del naso seduto sul cesso, gli unici a rappresentarlo nella sua essenza più vera. Anche in quei momenti solitari non sapeva stare nella propria realtà autentica se non fingendo ancora più spudoratamente nella sua convinta grandiosità megalomane e, tra sé e sé, si diceva borioso di “dischiudere ninfee oltre le colonne d’ercole dell’esistenza tangibile in una primavera odorosa di freschezza d’organza“. Eppur nella sua supposta suprema intelligenza non sapeva spiegarsi quel soprannome affibiatogli da qualcuno, mutuato da una vecchia barzelletta, da un fumetto che mai si era degnato di leggere, perché il suo finto personaggio d’adesione formale non gli permettava di avvicinarsi che a tutto quello riconosciuto come d’elevazione e di caratura secondo le norme d’imposizione che seguono linee dettate da altri. Il suo pensiero limitato era troppo assorbito da quell’aggettivo, “Grande“, per poter proseguire consciamente verso quel nome successivo di cui era accrescitivo e che così bene lo definiva, “Pagliacci“, nella sua squisita qualità di buffone, giullare, saltimbanco. Non colse mai l’ironia e ne fece il suo cavallo di battaglia. Orgoglioso portava il proprio scherno alla luce del sole come un trofeo, come una poesia contenuta in un nome che lo definiva perfettamente in ogni suo movimento, troppo stupido e tronfio per leggere una parola in più oltre le sue povere supposizioni di una grandezza alquanto lontana dal suo portamento da impostore.
Ma, alla fine, chi era veramente il deprecabile “Grande Pagliacci” se non una nota a margine dell’economia della vita umana?