Arthur Daane è un noto cineasta olandese trapiantato a Berlino, la cui esistenza è segnata dalla morte del figlio e della moglie in un incidente aereo, che trascorre la sua vita dividendosi tra passeggiate per la città e lavori documentaristici in giro per il mondo portati avanti insieme al progetto della realizzazione di un’opera personale (“Stava facendo un film che non gli chiedeva nessuno così come nessuno, a quanto ne sapeva, chiedeva una poesia. Quel film, di questo era certo, doveva esprimere qualcosa sul mondo come lui, Arthur Daane, lo vedeva. Ma lui doveva scomparirvi dentro.“) legata alla visione del mondo attraverso la quotidianità. Arthur Daane è un uomo ombroso ma non un solitario perché intrattiene frequenti rapporti con un manipolo di amici talmenti onnipresenti da portare avanti dialoghi e disquisizioni di varia natura, dal filosofico al musicale, dal valore del passato passando per birra e salsicce, anche in loro assenza perché riaffiorano nella memoria vecchie discussioni in ogni momento della sua giornata. Alla ristretta cerchia costituita da Arno, filosofo, Victor, scultore, Zenobia, scienziata, Vera, pittrice e Erna, l’amica in ogni momento, si aggiunge improvvisamente, grazie ad un incontro fortuito in un bar, Elik, una splendida donna di origini berbere impegnata in una ricerca su di una regina spagnola del Medioevo (“Cerco. Come una formica nelle invenzioni letterarie degli altri.“) su cui vorrebbe far emergere tutta la verità smarrita ed inquinata dal tempo e dai falsi storici. La forte attrazione che Arthur sente per Elik tuttavia deve affrontare l’indomabile carattere della donna, che non è esente a sua volta da ombre e dolori con radici nel passato.
Cees Nooteboom è un autore olandese candidato al Nobel in diverse occasioni la cui lettura non partiva sotto l’ala del buon auspicio se si considera che l’edizione arrivatami a seguito dell’ordine online aveva ancora il doppio prezzo in lire e in euro. Non vedevo questa dicitura dai primi anni del liceo, credo. E infatti ho ricevuto una giacenza di magazzino stampata nel lontano ottobre 2001. Gettonatissimo. Mi viene da pensare che l’articolo da cui mi era venuta la curiosità fosse sono un’abile mossa per smaltire volumi adibiti ad occupare spazio inutilmente nelle grandi catene.
Lettura abbastanza impegnativa, ammantata di un certo spessore e di una profondità a tratti ingombrante ma ricca di spunti e di riflessioni affascinanti ed originali che ammaliano e coinvolgono. A tratti sembra di muoversi all’interno di una nebbia densissima ed impenetrabile, ubriacati da suggestivi discorsi sui sistemi del mondo, in cui spiccano passaggi determinanti per addentrarsi in visioni alternative dell’esistenza, sulla funzione del tempo, del passato (“Il passato e il presente non si sopportano a vicenda. Dobbiamo sempre collocarci al di sopra del passato, dobbiamo sempre trascinarcelo dietro, non possiamo mai abbandonarlo nemmeno per un istante, perché il passato siamo noi stessi, e ciò nonostante è senza senso, perché non si può vivere guardando indietro“) del dolore, della storia (“Non c’è niente che sia mai successo davvero. Tutti i testimoni mentono la propria verità. La storia è contraddizione.“), sulla verità (“ogni cosa è contemporaneamente vera e illusoria, ed in effetti è difficile convivere con questo dato di fatto.“) e, in definitiva, sulla memoria, a volte acute, a volte superflue, ma senza mai perdere un senso di smarrimento ed ottundimento che accompagna il trascorrere della narrazione in cui si perde ogni riferimento e si finisce per smarrirsi nei meandri di riflessioni sull’esistenza che sempre più riportano alla propria. Il tempo si flette e si contrae continuamente in questo libro. Tutto sembra rallentare in una lentezza esasperante di eventi dilatati fino al centesimo di secondo per poi lasciare spazio ad una rapidità fuori controllo, quasi una caduta incontrastabile dominata da un’ansia di fuggire, in cui in poche righe ci ritroviamo in un altro luogo con altre persone, trasportati da un turbine improvviso che confonde tutte le carte attraverso inversioni di punti di vista, cambi di ambientazioni e incursioni improvvise di altri personaggi senza uno spazio di separazione tra loro e il protagonista come a continuare un dialogo mai interrotto anche in loro assenza.
Suggestivo ma a volte difficoltoso è assolutamente ricco di riflessioni acute giostrate da un autore colto ed originale che riesce ad alternate dense profondità ad eleganti ironie appena accennate (“[..] E le tartarughe ma quelle erano animali già quasi pietrificati. Non c’era da meravigliarsi che potessero diventare tanto vecchie, se per la metà della loro vita non avevano bisogno di vivere.“) che, come dice Fulvio Ferreri nella postfazione, ruota attorno a “la consapevolezza che ogni ricostruzione si effettua a spese di un’infinità di particolari che vengono sacrificati, che non possono non essere sacrificati perché altrimenti esperienza e memoria coinciderebbero, e dunque non esisterebbe memoria. Ma, d’altro canto è proprio in questi particolari sacrificati dallo storico – e da ogni individuo che ricostruisce la propria storia personale – che risiede il senso stesso dell’accaduto.“
“- Sa dove sta andando? Intendo dire: con l’autobus sarebbe arrivata da un’altra parte, no?
– Magari non stavo andando da nessuna parte, e allungando la strada ci si arriva lo stesso.“
L’ha ribloggato su il caffè colto.