Quando Sepúlveda sostiene che “La finzione è sempre un prolungamento della realtà” siamo già ad un terzo del Ritratto di gruppo con assenza. Non risulta difficile concordare con questa affermazione avendo tra le mani un libro in cui sono raccolti frammenti e riflessioni scritti in diversi periodi di tempo, che si muovono tra episodi autobiografici, cronache ed avvenimenti personali nel delineare un quadro di vita sfaccettato in cui emergono sicuramente variegate e singolari vicende umane ma, più di tutto, in cui quello che traspare realmente da queste righe sono l’umanità e la sensibilità del Sepúlveda uomo prima ancora che del Sepúlveda scrittore. Tutti gli scritti, sia che si parli di una modella morta durante un’operazione di chirurgia estetica al sedere, di cani randagi dai diversi destini, di bambini assenti da foto, di ironici scrittori, di ghiacciai destinati a scomparire o di discutibili presidenti del consiglio italiani (“Può esserci qualcosa di più grottesco di un anziano bassetto ma tutto impettito, mezzo calvo ma con la testa dipinta, dagli occhi a mandorla a forza di bisturi e dalla dentatura impeccabile grazie a trattamenti che gli impediscono di chiudere la bocca? Se a questa visione da incubo aggiungiamo un’adolescente, ancora minorenne, generosamente presentata dai genitori, una bambina che candidamente chiama l’anziano <<papi>>, abbiamo una trama da opera buffa che di sicuro fa rivoltare Rossini e Puccini nella tomba. [..] E, come dice la Bibbia, diamo a Dio quel che è di Dio e a Cesare una residenza geriatrica.” [92 minuti di applausi]) sono il pretesto per amare riflessioni sulla vita, sulla violenza e sul senso di ingiustizia quotidiano che dimora ad ogni angolo, sul ridicolo di certe miopi espressioni di cultura ostentata e sull’inadeguatezza della politica e di una società brutale che non lascia spazio alla commozione o alla consapevolezza (“Oggi si paga per essere testimoni della morte del mondo.“) che conducono verso nostalgie per qualcosa che non è mai stato e che forse non potrebbe mai nemmeno essere, se non in vaghe fantasie. Eppure non è questo il pensiero del Sepúlveda che arriva da tutta l’indignazione e dallo sgomento di cui la sua umanità è capace, in questo garbato libro di riflessioni venate di una certa vitale ironia. Perché non sono bastate le torture subite dalla dittatura, la prigionia, l’esilio e l’isolamento a piegare lo spirito di un uomo che, dalle sue parole, rimane ancora in piedi nonostante l’amarezza della realtà; non si scorge alcuna nota di rassegnazione nelle sue parole ma solo una visione disincantata di vite fragili e delicate quanto dignitose nella sventura.
Scorrevole e fluido in una prosa diretta ed immediata, che aggiunge una illusoria evidenza statistica alla personale convinzione che, tra tutti i sudamericani, gli scrittori di provenienza cilena (l’altro era Bolaño) solitamente risultano più facilmente digeribili di altri provenienti da altre nazioni e notoriamente più impegnativi (e altrettanto creativi) come Borges o Cortázar.
L’assenza della foto non è quella del bambino dal tragico destino ma quella di Sepúlveda stesso che non appare direttamente ma è come se ci fosse con tutta la sua carica ironica, passionale e di impegno civile di cui si percepisce la forte presenza in questa raccolta di frammenti di cui è piacevole (e consolatorio) scorgere (o idealizzare) uno spirito dalla rara umanità.
P.S. Piccola nota: la biografia in quarta di copertina è letteralmente identica al secondo pezzo introduttivo usato per l’attuale pagina di Wikiepedia dedicata allo scrittore. Magari qualche modifichina non farebbe male..