Era un piccolo borgo con case in pietra praticamente spopolato ad eccezione di quattro famiglie di pastori. Vivevano come una specie di piccola comune in cui condividevano ogni risorsa e gestivano insieme i problemi, perché “le difficoltà di uno erano le difficoltà di tutti” diceva sempre nonno Cesare. Si aiutavano a vicenda ed erano ormai diventati una sola grande famiglia in cui non si avevano altre notizie dal mondo esterno. Non per disinteresse ma per scelta, perché all’infuori di quel piccolo agglomerato imperavano solo il denaro e il potere. La loro era una vita semplice basata di agricoltura ed allevamento, senza pretese, di quella semplicità che facilmente finiva in giornate tutte uguali. Le case erano piccole e povere, di chi non ha nulla. Nonostante tutto quello che stava succedendo si ritenevano comunque fortunati perché ancora riuscivano a mangiare, mentre non molto lontano c’era chi non aveva più nulla.
Nonno Cesare stava tornando dalla mungitura con due secchi pieni di latte, la strada per la stalla al ritorno era in discesa e faceva meno fatica a trasportare dei pesi. Un paio di galline scorrazzavano liberamente ondeggiando il collo in avanti e indietro, a scatti, agitando le ali con una foga che sollevava piccole nuvole di polvere. Solo di tanto in tanto si fermavano a beccare il grossolano selciato alla ricerca di briciole. Un cane da caccia marrone, legato ad un palo, le guardava scodinzolando vorticosamente mentre la lingua gli cadeva pesantemente fuori dalla bocca. L’uomo passò davanti a casa di Adele stupendosi dell’incredibile quantità di fiori viola che sbocciavano vicinissimi alle fondamenta fino a circondarne il perimetro in tutta la sua lunghezza, mescolati a gramigna e vilucchio rampicante che saliva lungo le mura per arrivare fin sul davanzale della finestra.
La vide fare capolino dal vetro con i suoi bei capelli lunghi, luminosi e morbidi e il suo volto fresco da sposina. Si ricordò dei suoi anni passati con la moglie accanto, rivedeva in quella bellezza la propria gioventù, l’unica eredità intonsa rimastagli dalla vedovanza. Adele aprì la finestra per salutarlo, mettendo in mostra tutto il suo splendore con un sorriso sereno. Cesare voleva sapere come stava la piccola neonata e se la faceva impazzire tenendola sveglia con i pianti per le poppate ma lei disse che ormai il sonno della bimba si stava regolarizzando e riusciva finalmente a dormire tranquillamente per buona parte della notte. Le passò uno dei due secchi di latte, lo sollevò faticosamente e appoggiò un bordo sul davanzale mentre lei si sporse per aiutarlo.
All’improvviso il cane iniziò ad abbaiare maniera piuttosto eccitata, rivolto alla discesa che portava verso la pianura. Nonno Cesare capì subito dal modo di abbaiare che stava arrivando qualcuno. Lo fece smettere con un pattone e rimase in attesa che la causa di tutta quella agitazione si facesse visibile. Di solito il motivo erano dei fruscii o l’odore di animali selvatici ma questa volta pareva che avesse qualcosa di singolare, un’insistenza e un accanimento nel modo animarsi che prima d’ora non aveva mai visto in quella bestia. Ebbe un moto di paura. Come se il mondo stesse per crollare e collassare su sé stesso. Non aveva mai creduto ai presentimenti. Quando era giovane gli era capitato qualche volta di avere sensazioni simili, di sentire l’odore del sangue e tragedia dell’aria, un profondo dolore che anticipava la scomparsa improvvisa di un caro, ma nulla si era mai tradotto nella realtà rimanendo niente più che immagini fugaci di suggestioni adolescenziali senza peso.
Ci fu un attimo di silenzio totale, poi vide una testa ondeggiare spuntare all’orizzonte visibile e subito dopo apparse un volto sfinito sopra un corpo seminudo che si trascinava avanti boccheggiando. Lasciò il secchio rimanente a terra, disse ad Adele di nascondersi e corse a casa. Fece sbattere la porta così forte che la figlia e la nipotina, intente ad apparecchiare per la colazione, sobbalzarono per lo spavento e fecero cadere un barattolo di marmellata ai frutti di bosco che si frantumò in mille pezzi.
Giovanna e la piccola Rita videro entrare Cesare di soprassalto, bianchissimo, salire sulle scale e correre verso il piano superiore. Non fecero in tempo nemmeno a chiedere cosa fosse accaduto che già era sparito. Ritornò dopo poco imbracciando il fucile da caccia.
<< Che succede? >>
<< Chiudetevi dentro a chiave. Subito. >>
Fu la risposta imperativa pronunciata dalla voce profonda del contadino che nel frattempo si precipitò fuori, in attesa dell’arrivo. L’uomo si stava facendo avanti verso di lui, zoppicando. Poteva distinguere bene i suoi lineamenti marcati inaspriti dagli zigomi pronunciati e la barba appena accennata di qualche giorno. Il corpo era magro ma tonico, indossava solo un indumento intimo. Prima che si avvicinasse troppo gli intimò l’alt puntandogli il fucile contro con decisione, ma senza troppa convinzione, in fin dei conti un uomo nudo disarmato poteva fare ben poco.
<< Chi sei? >>
<< Mario. Mi chiamo Mario. >>
Disse quello alzando le mani in segno di resa senza troppa enfasi e senza distogliere lo sguardo dagli occhi inquisitori di Cesare. E proseguì.
<< Sono un operaio di Rivabella. Lavoravo alla Giorgi. C’è stata una battaglia in paese tra governativi e ribelli e i militari hanno raso al suolo tutto. Hanno bombardato con gli aerei. Ho fame, mi dia qualcosa da mangiare, mi aiuti. La prego. >>
<< Perché sei nudo? >>
<< Non lo so. Mi sono risvegliato così in mezzo alle macerie. Degli sciacalli devono avermi portato via tutto e per mettermi in salvo dai rastrellamenti sono salito da questa parte. La prego, ho fame. >>
Cesare abbassò il fucile e l’uomo contemporaneamente rilassò le braccia lasciandole cadere verso il basso. Lo guardò con i suoi occhi neri come la notte chiedendo con una punta impercettibile di sarcasmo
<< Ora posso venire avanti? >>
<< Seguimi. >>
Disse lui lapidario. Attese che gli si affiancasse e poi lo condusse a casa sua.
Mario era ridicolo con i vestiti vecchi di Cesare. Gli stavano larghissimi e gli calzavano male. Sembrava un bambino che scimmiottava un adulto con la camicia a scacchi rossa e i pantaloni di fustagno.
<< Magari te li riprendo un poco.. >>
Gli disse Giovanna mossa da tenerezza. Ma l’uomo non sentiva da quanto era preso a divorare del pane raffermo insieme ad un piccolo pezzo di formaggio. Stava pure morendo di sete e trangugiò il latte dal bicchiere in un solo prolungato sorso che rimbombò nella stanza. Con una manica si pulì la bocca lasciando una perlacea striscia umida sul polsino della camicia. Rita nel frattempo saltellava inconsapevole per tutta la stanza lanciando ogni tanto qualche occhiata furtiva allo sconosciuto che non ricambiava l’attenzione.
Non appena ebbe finito Cesare gli comunicò che non poteva stare da loro. Non avevano le risorse e soprattutto non lo conoscevano e non sapevano chi fosse. E in tempi come quelli c’era da stare attenti non solo a militari e ribelli ma anche a civili, banditi e sciacalli. Per sopravvivere bisognava pensare solo a sé stessi. Mario disse che era comprensibile ma chiedeva solo alcuni giorni per riprendersi. Il proiettile era uscito senza ledere alcun organo, non aveva bisogno di un dottore ma solo di riposarsi per alcuni giorni e recuperare le forze. Chiedeva solo una breve ospitalità e poi se ne sarebbe andato, avrebbe raggiunto i suoi genitori a Zavrasca. Cesare e Giovanna non si sentirono di negare questa possibilità e lo sistemarono nella stalla. Chiesero ad Adele di preparare qualche infuso di erbe antinfiammatorie e di portarli all’ospite che, una volta sistemato, dormì fino al giorno successivo.
Quella notte Giovanna e Cesare non riuscirono invece a prendere sonno mentre un silenzioso cielo stellato copriva dolcemente il piccolo paesino di Salvarezza le cui case si assopivano al buio spegnendo, una dopo l’altra, le luci delle stanze da letto.
La mattina dopo il paesino ebbe un risveglio inaspettato, si presentarono undici uomini armati di mitra e pistole, alcuni con divise mimetiche verde scuro altri in abiti civili.