La risalita (prima parte) – Racconto

Quando aprì gli occhi fu invaso dall’orrore.
La prima cosa che vide fu il volto sfigurato di un morto. Era circondato da cadaveri smembrati e da corpi martoriati ricoperti da sangue rappreso in ampie macchie violacee mescolate a polvere e fango. L’odore dolciastro e pestilenziale attaccava le narici e si aggrappava alle pareti dello stomaco stringendolo in una morsa d’acciaio. Si sentiva soffocare per il peso opprimente di altri corpi gettati sopra il suo ma non poteva muoversi prima di essere sicuro che non ci fosse più nessuno. Il soldato che gli aveva sparato alle spalle evidentemente non si era premurato di guardarlo al volto e, ingannato dalla divisa da soldato semplice, doveva averlo gettato nelle grotte senza pensarci più di tanto. Era stato fortunato e non poteva lasciarsi scappare questa occasione per sopravvivere. Rassicurato dal silenzio assoluto provò a scostare i corpi e a scivolare via. Era molto debole, aveva perso parecchio sangue per la sventagliata di mitra. Un solo colpo a segno e tre di striscio. Un miracolo di Dio per la sua devozione infinita e per tutte le preghiere notturne con cui trovava il coraggio di portare avanti la sua missione di un mondo migliore, pulito. Non riuscì a liberarsi prima di aver provato diverse volte a scansare quel peso. Finalmente si alzò in piedi, ansimante per lo sforzo, si appoggiò alla fredda roccia cercando di stare in equilibrio sopra a quella mostruosa massa scivolosa. Se non fosse stato carico di adrenalina avrebbe rimesso la sua ultima cena. Aspettò che battito e respiro si regolarizzassero inspirando ampie boccate di aria malsana e dolciastra. Filtrava un poco di luce dall’esterno e in qualche modo riusciva ad intravedere qualcosa. Erano stati ammassati in un pozzo roccioso con pareti alte ma fortunatamente piene di scannellature a cui aggrapparsi. Infilò le dita della mano sinistra in una fessura e si issò facendo perno con il piede destro sopra una sporgenza. La scalata era lenta e difficile e, avendo le mani viscide, scivolò e cadde dopo alcuni metri, strisciando sul muro ma atterrando su di un raccapricciante morbido.
Non si rialzò subito. Stava diventando sempre più stanco e nella sua mente si materializzò l’eventualità di dover rimanere in quel luogo per così tanto tempo da dover patire la fame e dover ricorrere all’ultimo risorsa per la sopravvivenza. Ma il terrore e il disgusto di quell’immagine, l’idea di essere ricordato dai posteri come un moderno Ugolino gli diedero una nuova motivazione per uscire da quel pozzo. Si rialzò e riprese la scalata dando fondo a tutte le sue energie residue alimentate dalla disperazione. L’odore che si alzava dal cumulo umano lo spingeva verso l’alto e accompagnava le sue mani mentre l’unghia dell’indice destro saltava dal dito. Incurante strinse i denti e avanzò deciso fino ad arrivare al bordo. Il piede destro perse nuovamente aderenza e con tutto il corpo sarebbe volato nel vuoto se non fosse riuscito ad aggrapparsi ad un masso. Si ristabilì e con uno slancio si issò oltre il bordo fino a giungere al sicuro. Con la schiena a terra prese aria osservando la volta levigata che in quel momento gli pareva la cosa più bella al mondo, il miglior spettacolo mai visto. Non aveva mai tenuto la testa rivolta verso l’alto con così tanta meraviglia nemmeno quando da piccolo lo avevano portato a vedere la cappella Sistina. Quella che stava vedendo in quel momento era l’immagine sterile e piatta della salvezza. Non poteva perdere altro tempo, ignorava quanto fosse rimasto privo di sensi e non doveva adagiarsi. Si trovava in una galleria scavata malamente dall’erosione del tempo, illuminata dalla luce del sole che filtrava dall’alto. Percorrere la via principale era impensabile, era completamente buia ed era stato fatto saltare l’ingresso rendendo inutile anche solo tentare di prendere quella direzione e assumere il rischio di perdersi nel nulla. L’unica speranza era seguire quel piccolo fascio di luce che veniva da una galleria secondaria.
La paura di morire era una spinta più forte di qualunque altra paura, compresa quella di farsi ulteriormente male, e gli conferiva una determinazione incosciente. Era una falena in una notte rischiarata da un piccolo fuoco in mezzo ad un campo nero di pece. Appoggiandosi alle pareti lisce, faceva scorrere i palmi per sorreggersi ed accompagnare i passi prudenti. Non vedeva nulla ad eccezione dell’angusto cunicolo laterale appena rischiarato da riflessi provenienti da chissà dove. Dopo averlo imboccato le sue pupille dilatate scorsero maggiori dettagli. Alcune pozze di acqua si erano accumulate a terra mentre tutto trasudava di viscida umidità. Doveva stare attento a dove metteva i piedi, il suo equilibrio era compromesso e la testa gli pulsava fino a far girare tutto. La vista era sfocata ma non poteva permettersi di svenire. Si diede due forti schiaffoni per tenersi sveglio mentre cercava di mettere a fuoco tutto quello che gli si presentava davanti. Doveva tenere la mente lucida per più tempo possibile.
Il cunicolo iniziò a farsi sempre più stretto ed angusto. Chinò la testa e la schiena per poter proseguire. Fu costretto ad andare a carponi. Le spalle strisciavano sulle pareti premendo i muscoli. Era terrorizzato di rimanere incastrato e non potersi più muovere ma continuava a vedere una luce mentre la mente era sempre più annebbiata per permettersi di ragionare in maniera efficace. Le rocce sporgenti iniziarono a tagliarli la pelle ma proseguiva insensibile. La luce si fece più fievole per un solo attimo quasi fino a sparire, lasciandolo strangolato dal panico che gli seccava la bocca. Invece, poco prima di sparire del tutto, il flebile raggio riprese intensità fino ad illuminare tutto a giorno. Le spalle iniziarono a sentire una minore oppressione, i polmoni respirano a pieno regime mentre il senso claustrofobico scemava fino a scomparire del tutto quando si ritrovò all’interno di una grotta in cui imperava potente l’odore della salsedine e il rumore delle onde del mare. Uscì dal cunicolo respirando una profonda boccata d’aria e sbarrando gli occhi verso l’unica apertura visibile da cui scorse l’orizzonte di un mare aperto rossastro e sanguigno, terso e impassibile.
Svenne sopra una spiaggia bianchissima, stremato dallo sforzo e dalla paura.
Si risvegliò con la bocca scricchiolante e i vestiti completamente ricoperti di sabbia. Il sole del mattino entrava dall’accesso frontale rimbalzando sulle pareti e, colorandosi di arancione, diffondeva una calda luce in tutta l’ampia grotta. L’accesso era esattamente di fronte alla spiaggia, separato da un braccio di mare penetrato all’interno in cui i flutti si frangevano placidamente. La superficie del lago salato era uno specchio che si frammentava delicatamente in numerose schegge d’argento mentre il rumore della risacca si amplificava nel chiuso della grotta. La fame gli morsicava lo stomaco e sapeva di non potersi permettere altre esitazioni. Si svestì e si tuffò in acqua. Nuotò verso l’apertura dove le correnti si facevano più forti, sbalzato leggermente e faticando più del previsto. Una volta varcato l’uscio roccioso venne accecato per un solo momento. Si allontanò in fretta dalle pericolosità delle onde e si fermò per capire da dove risalire. Raggiunse gli scogli senza conseguenze e riprese fiato facendosi scaldare dal sole. Le ferite erano doloranti e tutto il corpo protestava per gli sforzi a cui era stato sottoposto ma non poteva risparmiarsi ancora. Si rialzò seminudo e iniziò a seguire il sentiero decorato di arbusti ed esili alberelli che percorreva tutto il versante circumnavigando la montagna. I piedi si stavano tagliando sui sassi ma la sua concentrazione era rivolta esclusivamente alla salvezza al punto che, quando giunse ad un bivio, scelse di salire ancora verso la cima fino paesino di Salvarezza perché la speranza gli fece leggere appunto “Salvezza”.

CONTINUA

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