Le dita battevano pesanti sulla tastiera della vecchia macchina da scrivere.
Tic Tac ripetitivi come una danza tribale proveniente dai più profondi meandri dell’anima, sepolti in una foresta di fitto fogliame, negli spasmi regolari di un cuore umido di vita e soffocato dalle radici di un passato sempre meno remoto e sempre più prossimo. Il termine di ogni riga era sancito da un forte Ring che anticipava il Tic Tac convulso, senza sosta, con la metronomica cadenza della musicalità di una fantasia totalizzante che si realizzava negli occhi dello scrittore. Barba e capelli lunghi, curvo e solitario nel lungo monologo interiore, lo scrittore vide le settimane sfumargli tra le dita dai grassi polpastrelli mentre si sentiva sempre più l’esca infilzata dall’amo dell’esistenza, quella con cui banchettavano tutti i pesci dell’oceano lasciandolo sempre più spolpato e a brandelli.
Tuttavia l’anima non bastava più per riempire quei fogli bianchi e dovette strapparsi il cuore dal petto, schiacciarlo con forza sopra quelle superfici vuote e angosciose, fino a spremerlo in un’unica macchia di sangue vermiglio, informe e poltigliosa che lentamente si raggrumava fino a comporre intere pagine ricoperte di parole.
Le dita iniziarono ad incollarsi ai tasti quanto il suo sedere si fuse con la sedia e le sue ginocchia alle gambe della scrivania. I fogli imbrattati iniziarono a colare e trasudare da ogni parte fino a creare una spessa chiazza rossa lattiginosa che si spandeva sotto la macchina da scrivere mentre un odore ferroso e dolciastro arrivava filamentoso alle narici dello scrittore ormai esausto e sfinito che, con gli ultimi residui di vita, scrisse più solo la parola “Fine”.
A volte capita di lasciarci la vita, sulla carta
A volte anche di spiaccicarci sopra il cuore