Antoine Roquentin vive a Bouville dove trascorre buona parte delle sue giornate dentro la biblioteca municipale nell’intenzione di scrivere un libro su di un personaggio storico del XVIII secolo. In quelle stesse stanze è frequente la presenza di un individuo noto come “L’Autodidatta”, un uomo che sta leggendo tutti i volumi della biblioteca in ordine alfabetico, con cui capitano alcuni scambi di opinioni. Antoine alterna il lavoro con passeggiate per la città, serate in taverna e a volte con sesso occasionale insieme alla padrona dello stesso locale mentre il passato con la fidanzata Anny, che lo ha lasciato quattro anni prima, si presenta a braccetto con un fiume di riflessioni, impegnate nella spiegazione di un vertiginoso senso di nausea che, di tanto in tanto, lo coglie improvvisamente.
Scritto sotto forma di diario, “La nausea” contiene una parte dell’esistenzialismo filosofico di Sartre riportato in letteratura. Lo scrittore fu l’idolo della sinistra per il suo impegno politico e le sue idee (celebre la foto del suo incontro con Ernesto Che Guevara) ed è anche noto per essere stato l’unico ad aver rifiutato di sua iniziativa il Premio Nobel (Pasternak non conta visto che subì pressioni dal KGB affinché non accettasse; tralasciando anche tutte le vicende parallele e rocambolesche, pur sempre da piena Guerra Fredda, che lo portarono a vincere) con la motivazione che “nessun uomo merita di essere consacrato da vivo“. Tralasciando tutti questi retroscena per il semplice fatto che è piuttosto stupido leggere un autore solo perché è di sinistra (o di destra) e idolatrarlo di conseguenza, Sartre è innegabilmente un ottimo scrittore. La nausea non parte in maniera travolgente, non galvanizza dall’inizio delle prime pagine ma gioca sottilmente a carpire la mente del lettore in una spirale soffusa che ad ogni curva trascina sempre di più in un vortice di pensieri. La sensazione iniziale di nausea che prova Antoine si presenta in maniera innocua ed indefinibile, un piccolo dettaglio trascurabile a cui viene dato peso solo perché è il titolo stesso a suggerirne l’importanza (in realtà originalmente avrebbe dovuto chiamarsi “Melancholia“). Eppure è proprio questa inspiegabile nausea ad attirare l’attenzione fino a quando non diviene la condizione totalizzante del protagonista il quale è letteralmente invaso da questa sensazione devastante e, insieme a lui, anche il lettore viene totalmente coinvolto dal flusso di pensieri e dal disagio fino al punto di sentirli come propri. Lentamente si viene trascinati in quello che è l’abisso insensato dell’esistenza verso cui Antoine prova una sorta di disgusto e repulsione profondamente radicati che si manifestano prima in una forma fisica piuttosto che in un riconoscimento a livello intellettivo la cui origine è successiva. Lo stesso atto di esistere è una forma di puro sgomento (“E’ dell’esistenza che io ho paura“) che segue ad una forzatura, ad una costrizione a cui ogni uomo è sottoposto nell’atto stesso di vivere (“Gli alberi ondeggiavano. Uno zampillamento verso il cielo? Era piuttosto un afflosciamento, da un momento all’altro m’aspettavo di vedere i tronchi raggrinzirsi come verghe stanche, afflosciarsi e cadere al suolo in un mucchio nero pieno di pieghe. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene, ecco.”), in cui non è possibile rintracciare alcuna forma di senso prestabilito (“Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo ne coda, è un’addizione interminabile e monotona“) e in cui domina invece un’idea di gratuità dell’esistenza (“L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente; [..]. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza perfetta gratuità.“) senza nulla che vada oltre le sembianze formali dell’apparenza (“le cose sono soltano ciò che paiono – e dietro di esse… non c’è nulla.“).
L’esistenza diviene una condizione in cui “ogni esistente nasce senza una ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione” restituendo l’immagine di un assordante nulla privo di direzione e di scopo, un deserto insensato di fronte al quale l’unica reazione possibile è lo straniamento consapevole della nausea in uno sgomento vertiginoso.
Leggere questo libro mi ha sbilanciato, confuso, fatto gioire rendendomi, nel medesimo istante, malinconico.
Spesso mi ha ricatapultato a quella bizzarra sensazione che si acquisisce quando ci si “perde” tra le righe della coscienza di zeno.
L’amigdala ringrazia per l’ effetto memoria.
In cuffia : j’te connaissais pas – oxmo puccino
Non è uno dei libri che mi abbia emozionato di più ma la gamma di sensazioni è esattamente la stessa di cui parli tu. Tutta la parte in cui Antoine capisce il senso della sua nausea è destabilizzante e vertiginoso, l’ho divorato in preda all’ansia senza riuscire a distogliere lo sguardo. Senza fiato.
Ma non si chiamava “Il vomito”? ;P
ahahahah! 😀
L’ho portato nella mia tesi per la maturità… ricordo che se non fossi arrivata alla fine di quelle pagine, sarei arrivata alla fine io. Un libro che cambia l’esistenza: la calpesta e poi la risparmia.
Verissimo, la sensazione è proprio quella di sentirsi calpestati nel trovarsi di fronte alla prospettiva di un orizzonte in cui non si prospetta nulla con un senso di vuoto che si fa incombente sempre di più per ogni pagina..
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