Di arte non so veramente nulla e quel poco che conosco lo devo ad una parte di memoria prevalentemente di tipo visivo (perché l’altra parte si occupa di ricordare ogni genere di informazione completamente inutile) e alle lezioni di arte delle scuole medie. Risale proprio ai vecchi banchi pieni di scritte l’incontro con uno dei pochi artisti capaci di attirare la mia attenzione e solleticare il mio interesse (in realtà è una colossale balla. Nel momento in cui si viene a contatto con un’opera d’arte e soprattutto la sua spiegazione, è piuttosto difficile non esserne colpiti in un qualche modo, positivo o negativo che sia o con una reazione di qualunque tipo) : Edvard Munch. Tutte le informazioni che ho su di lui (che poi sono quelle che conosce chiunque) sono reminiscenze delle lezioni delle medie e del fatto che portai il pittore norvegese come argomento d’esame: precursore dell’espressionismo, quindi di quella corrente il cui intento era di proiettare l’interno dell’artista sul mondo esteriore, pittore dell’angoscia e della malinconia che visse profondamente entrambe sulla propria pelle insieme alla malattia, i quali fungevano da elementi propulsivi per la sua poetica e che usava esporre i suoi quadri alla pioggia, allo sporco per far si che in esse si potesse imprimere tutta la violenza della natura, più poche altre cose.
Per quanto ormai inflazionato e commercializzato beceramente da “Scream” (che comunque ho guardato) di Wes Craven, “L’urlo” rimane un dipinto straordinario e unico (nemmeno poi più di tanto, a dire il vero, visto che ne esistono una quarantina di versioni. Il Munchmuseet di Oslo ne possiede cinque. [Delusione profonda. Dopo il furto mi venne quasi da dire “Eh beh? Sostituitela con una delle altre!” ma il discorso è più complicato ovviamente]) che esercita un fascino indiscutibile. In realtà sono molte altre le opere degne di nota e che possono vantare lo stesso impatto emotivo e nella mostra a Palazzo Ducale si possono vedere alcune litografie di tele famosissime come “Il vampiro” e “Madonna” e dipinti originali meno noti ma che fanno conoscere aspetti inediti o meno noti di Munch.
La mostra è organizzata in maniera decisamente intelligente. Si inizia con la sala in cui viene proiettato un breve video biografico che permette di conoscere il pittore e poter fare successivamente degli adeguati collegamenti tra la sua vita e le sue opere. Spesso viene messo alla fine del percorso e non sono mai riuscito a capirne il motivo perché di solito si è stremati e le risorse per concentrarsi ulteriormente sono troppo scarse per riuscire a dare l’attenzione dovuta. Si susseguono le varie stanze tra litografie e tele fino ad arrivare alla vera mossa geniale con cui si conclude il percorso. Quando si va a vedere Munch ci si aspetta (sbagliando) di vedere “L’urlo” prima di tutto. Probabilmente non era facile portare una tale opera al Ducale ma nemmeno si poteva deludere le aspettative. Ed ecco la chiusura ideale: un’ultima stanza in cui sono esposte tre interpretazioni “pop” del famoso dipinto (ma anche di altri) ad opera di Andy Warhol.
Quindi tutti contenti e una mostra curata in maniera capace e arricchita da numero fotografie con cui viene documentata la vita del pittore.
Uno degli aspetti che emerge è quello del Munch ritrattista (colpisce quello di “Hieronymus Heyerdahl“, un giurista norvegese dell’epoca) la cui particolarità è quella di ritrarre le persone in pose ed espressioni in cui, se stessimo parlando di foto (con cui ho una confidenza vagamente maggiore), viene evidenziat
o l’aspetto più interiore e magari nascosto della personalità dei soggetti. Un barlume di anima. E’ come quando si fa una foto e si riesce a prendere un’istante tale in cui volto e corpo possiedono una profondità evidente, uno spessore palpabile da cui traspare l’essenza della persona. Stessa cosa vale per gli autoritratti in cui permane una “scia luminosa” negli sguardi di autenticità, di verità. Come se andasse oltre la patina dietro cui possiamo nasconderci per dissimulare noi stessi da bravo scrutatore di animi quale pareva essere dal momento in cui viveva un rapporto così intimo con le emozioni.
Un altro aspetto è la ricorrenza di donne ritratte frequentemente nude e rappresentate in dinamiche angosciose anche nelle situazioni che dovrebbero essere confortanti. Il bacio della donna ne “Il vampiro” è un gesto di affetto capovolto in una drammatica forma di possessione e di parassitismo, in cui uno dei due individui viene totalmente privato della sua essenza vitale e soggiogato dall’altro. Le donne nella sua visione sono divoranti, crudeli e minacciose. La sua stessa compagna, Tulla Larsen, è dipinta in mezzo busto, nuda, senza braccia, i capelli scarmigliati e gonfi e lo sguardo pietrificante come quello della gorgone Medusa. E dopo aver sentito della loro travagliata relazione nemmeno mi stupisco più di tanto (ribadisco di ricordare solo le cose inutili). Pare che lei volesse sposarlo a tutti i costi ma che lui non volesse perché vedeva nella sua libertà la fonte di energia della sua arte. Lei non gradiva troppo i suoi rifiuti (evidentemente) e una volta, grazie alla complicità di un amico comu
ne, convinse Munch di essersi suicidata (o di volerlo fare ma non è importante). Questi allora si reca a casa di Tulla e la trova coricata dentro una bara circondata da candele. Appena entrato lei si alzò e lo aggredì verbalmente iniziando un litigio dai toni accesi che terminò con un colpo di pistola. E Munch ci rimise una falange (Grazie al cazzo che non vedava le donne di buon occhio!).
Non risparmia nemmeno la Madonna. Infatti una delle litorgrafie del dipinto omonimo presenta una cornice esterna decorata con spermatozoi che, secondo l’audioguida, sarebbero il riferimento alla fertilità della donna. (Ora: non so quale fosse il modo di interpretare la simbologia nella Norvegia agli inizi del 1900 ma non credo possano essere poi tanto diversi da quello in Italia agli inizi del 2000 e immagino che questo possa anche avere delle connotazioni dissacranti [apprezzatissime!!], ma potrei anche sbagliarmi eh..) Tuttavia Munch possiede una sensibilità capace di cogliere anche aspetti diversi oltre la propria visione delle cose. In una litografia presente alla mostra per esempio ritrae una donna in una posa affranta e triste, spogliata dagli elementi che di solito sono costanti nella sua produzioni e che appare, diversamente dalle altre volte, fragile e delicata, di una bellezza malinconica e tragica.
Tra i temi di angoscia (“Senza paura e malattia la mia vita sarebbe una barca senza remi“) e solitudine come in “Attrazione“, con queste figure in primo piano che sembrano destinante all’incomunicabilità filtrata
da una tensione che le vorrebbe una accanto all’altra, spicca la malattia (“La ragazza malata“) ma volte prendono la scena anche dipinti in cui l’attenzione è incentrata solo sulla composizione visiva e paesaggistica. Munch è un maestro nello scavare il profondo dell’animo umano andando a far riemergere una vasta gamma di emozioni (“Gelosia“, [in cui si ritrae intento a provarci con la moglie di uno scrittore polacco che viene invece sbertucciato e il cui ritratto viene messo in primo piano]) che ne caratterizzano spesso le inquietudini ma anche gli imbarazzi e le vulnerabilità (“Bathing Boys“) nella cornice di un violento e immediato coinvolgimento visivo ad ogni sguardo.
Nelle opere esposte a Palazzo Ducale c’è una sorta di ricorrenza di temi e anche di scelte visive che probabilmente rappresentano la fase di studio e l’abbozzo di idee usate in maniera definitiva nei dipinti che lo hanno reso immortale, come l’ombra di “Pubertà” che si può vedere in alcune litografie esposte, con intenti simili ma con una resa diversa da quella del famoso dipinto. Il grande assente, “L’urlo“, lo si può facilmente ritrovare e riconoscere tuttavia in tutte le opere esposte, con piccoli contributi quà e là (come ne “Le ragazze sul ponte“, di cui a Genova è presenta una litografia, in cui la ricerca pr
ospettica è molto simile) sotto diverse forme che vanno dal visivo al concettuale, fino a costituire “un grande urlo infinito che pervade” tutta la sua opera e si può ritrovare in ogni suo singolo dipinto.
Genio fuori discussione, negli ultimi anni della sua vita iniziò a dipingire dentro un fienile senza tetto e con l’erba sotto i piedi. Quando Brian Wilson dei Beach Boys si riempì la casa di sabbia perché sosteneva che la sua creatività arrivasse da quell’elemento naturale gli diedero del malato mentale. In effetti anche Munch si fece i suoi otto mesi in clinica psichiatrica per le allucinazioni. E fu pure un periodo produttivo perché ne approfittò per far diventare la sua stanza un atelier e continuare a dipingere.
Tutto questo per dire che forse la normalità è solo una costrutto statistico e magari non c’è nulla di male a vivere in uno spazio che rispecchi la propria anima.
“Camminavo lungo la strada con due amici
quando il sole tramontò
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue
mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto
sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la sua natura.“
Edvard Munch ————————————————————————————————————-
P.S.
Per rimanere in linea con l’idea Anti-urlo della mostra non ho aggiunto nessuna immagine del celeberrimo ma per non deludere le aspettative di chi fosse giunto qui per sbaglio (o intenzionalmente), come è stato fatto a Genova, metto una magrissima consolazione morta in una delle peggiori carestie.
Loro hanno scelto Warhol (giustamente) io invece gigioneggio un po’ e metto il mio “Urlo”.
Quello che ho fatto a 14 anni.
Capisco la delusione, Warhol è Warhol e io non sono un cazzo (cit.).
dividerò il post in più pezzi … 😉
*io ho l’urlo di Lisa ….. Simpson -.-‘
Non perderci troppo tempo.. 😉
Hai tutta la mia stima!!! 😀
😉