Nell’Italia degli anni ’60, in pieno boom economico, un intellettuale di provincia si trasferisce a Milano con l’intento di mettere una bomba nella sede di una società mineraria responsabile della morte di alcuni operai. Il protagonista allora lascia moglie e figlio a casa e inizia a progettare l’attentato ma durante una manifestazione conosce l’attivista politica Anna e con lei intraprende una relazione andando a vivere insieme dopo poco. A questo punto l’attuazione del piano inizia a procedere a rilento perché la convivenza e il mantenimento della vita (di entrambi i nuclei famigliari) richiedono tanto denaro. Entrambi iniziano a barcamenarsi in una serie di lavori sempre più malpagati e sotto sfruttamento, finendo in una spirale da cui diverrà sempre più difficile uscire incolumi, fino ad essere inglobati in un sistema che porta al sopore della mente, del corpo e al desiderio di non vivere per rifugiarsi in un sonno tombale con cui potersi allontanare dalla realtà.
Qesto romanzo autobiografico pubblicato nel 1962 è una critica alla società castrante in cui viveva l’autore e che, a ben vedere, è la stessa in cui viviamo oggi. Sono passati più di cinquant’anni e non è cambiato un cazzo. Le cose anzi sono peggiorate. Dal punto di vista tematico è di un’attualità sconcertante. Il protagonista, pieno di ideali, viene inglobato lentamente in una melma opprimente che lo spoglia di ogni suo istinto vitale, condannandolo ad una vita misera e vuota, priva di piaceri e di affetti, fatta esclusivamente di lavoro e di tutte le sue incessanti richieste a cui è indispensabile sottostare per sopravvivere in mezzo alle subissanti pretese dell’ambiente circostante, bollette, assicurazione, il mangiare, la famiglia, l’affitto. I due protagonisti vengono scarnificati e trasformati in involucri privi di affetti e di idee, il cui unico momento di pace si riduce ad essere quello del sonno. Vengono separati persino come coppia e ridotti a programmare il sesso nei rari momenti liberi in cui questo poteva accadere, vissuto non più come vero godimento ma come atto meccanico, residuo di un ricordo piacevole. Il lavoro ai ritmi bestiali ed ipocriti (in cui ogni pretesto è buono per sfruttare il prossimo) non è altro che una mera apparenza, perché non vengono premiati i meriti o l’impegno ma solo la capacità tattica di occupare un posto e rendersi indispensabili quando non lo si è per nulla (“Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere.“). Tutte le forme di idealismi e di tentativi rivoluzionari si devono inginocchiare di fronte ad una realtà gretta e meschina che non lascia scampo e che uccide l’uomo. Il grido di Bianciardi è quello di un ritorno alla naturalità , al semplice e a ritmi privi di artifici prima che l’umanità perda definitivamente la sua essenza. E’ un monito, un avvertimento, una critica all’alienazione progressiva che ai tempi poteva rappresentare una distopica visione catastrofista di un futuro possibile, che invece si sta rivelando, in questo momento più che mai, un presente molto ben radicato nella nostra società.
Dal punto di vista stilistico il romanzo stenta un poco a decollare risultando noiosetto nei primi capitoli. Il modo di scrivere è piuttosto anonimo e forse volutamente asettico nelle sequenze descrittive in cui tuttavia traspare a tratti una timida e velata ironia. Bianciardi concede il meglio di sé quando veramente decide di lasciarsi andare e riportare il suo pensiero nudo e crudo, critico ma anche speranzoso di un futuro migliore perché è proprio in quei frangenti che emerge tutto il suo trasporto e coinvolgimento (il monologo del penultimo capitolo è travolgente ed è il vero apice), rendendo il lettore partecipe di tutti i suoi processi di pensiero (spesso condivisibili). Il pessimismo rassegnato con cui si conclude il libro riesce comunque a conservare una piccola sperenza, una piccola candela da conservare al riparo dal vento, un invito a non smettere di pensare che un’altra vita sia possibile ma “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha.“. Il protagonista non ci riesce ma la sua eredità può essere raccolta da altri e viene detto prima della fine, mostrando proprio come non si deve finire.
Un libro amaro ma attualissimo nonostante alcune (per me) fastidiose (e ormai anacronistiche) estremizzazioni in stile sessantottino che, ormai, hanno rotto abbastanza i coglioni e sarebbe il momento di superare conservando invece quanto di buono c’è stato.
Cosa c’è stato di buono, se alla fine, dopo cinquant’anni siamo sempre allo stesso punto? Bel post, mi è piaciuta un sacco la tua analisi.
Credo che il buono degli anni settanta e del ’68 fosse nel fermento culturale, nella motivazione a voler cambiare le cose, nei valori e nella presenza di ideali in cui credere (senza stare a discutere se fossero giusti o meno e sorvolando su alcuni fastidiosi estremismi idealizzati e utopistici). Certo, se dovessi basarmi sui risultati effettivi (come giustamente mi fai notare tu) dovrei dire che non sono serviti a nulla. Perché è vero che siamo sempre allo stesso punto. Anzi, forse siamo messi peggio. Ma nonostante questo credo che qualcosa di buono ci sia da salvare, che magari andrebbe recuperato e rivisto per ripartire in direzioni nuove. Le idee c’erano, ma si era troppo “invasati”, credo. Tu cosa ne pensi invece?
Ti ringrazio..
forse questo non è proprio il momento adatto per leggere questo libro! 🙂
Non saprei in realtà.. di certo si arriva in ritardo ormai! 🙂