Diario
Festeggio la liberazione da un periodo di cattività più o meno forzata e autoimposta con un bel bagno di folla sulla scia delle nostalgie universitarie e me ne vado a Genova, dal mattino presto come quando ero studente (non proprio con lo stesso treno perché non sono ancora così sadico con me stesso), ben intenzionato a fare delle foto, a trascorrere il tempo in giro per i vicoli, a comprarmi un cappello e a vedere la mostra di Doisneau al Palazzo Ducale.
Avevo guardato le previsioni il giorno prima e solitamente “pioggia leggera” significa “mi paro il culo ma tanto non piove”. Invece questa volta significava
proprio “pioggia leggera”, di quel tipo fastidioso, insistente e imprevedibile, che mi fa passare la voglia di tirare fuori la macchina fotografica per evitare di dovermi destreggiare con un ombrello rotto (possibile che di tre ombrelli nella mia macchina non ce ne sia uno in buone condizioni?), con il cambio degli obiettivi (sono pigro), con il terrore dell’umidità (e anche paranoico) e quindi, in conclusione, di rovinare la mia “bambina” (non le ho ancora dato un nome ma ci manca poco). La prossima volta devo organizzarmi meglio e con una tenuta più agile e comoda. Le previsioni dicevano anche “18-20 gradi” ma forse il mio cervello voleva ripetere l’esperienza di partire al freddo e poi morire di caldo per il resto del giorno, esattamente come ai tempi in cui facevo il pendolare. Riassunto: nemmeno una foto.
Tutta la mattina si è quindi svolta in una lunghissima passeggiata per la città, il porto, i vicoli, a godermi per una volta l’aria che si respira nei caruggi senza avere la preoccupazione di dove andare a qualche lezione, esami da fare oppure orari da rispettare. Per la prima volta sono pure entrato dentro la cattedrale di San Lorenzo invece di guardare (come accade sempre quando ci passo davanti) solo il “cane” sui decorativi esterni ma, per contro, ho anche dovuto mortificare contemporaneamente la mia tentazione di andare nel confessionale a dire un sacco di cazzate (no, dai, non sono così irrispettoso) al prete confessore.
Preso dall’impulso irresistibile di comprarmi un cappello ho iniziato a girovagare per il porto alla ricerca di un negozietto in cui dieci anni fa avevo preso un berretto (che uso ancora adesso con orgoglio nonostante i pochi apprezzamenti). Avevo già provato a rintracciare questo posto in un altro momento ma non ero mai riuscito a ritrovarlo. Mi piacerebbe pensare che fosse un negozio magico tipo il Safarà di Hamlin ma temo che, per quanto longeva potesse essere la signora proprietaria (era già piuttosto stagionatella dieci anni fa), debba rassegnarmi al fatto che non ci sia più e che abbia chiuso. Però lo cerco imperterrito (Sono perseverante ai limiti della stupidità in certe occasioni). Spero che magari mi appaia in un angolo diverso da dove lo ricordavo. A Dylan Dog succedeva, perché a me non dovrebbe?
La mattinata finisce con la visita ad un amico e un fiero pranzo alla “Trattoria da Maria“, famosissima in tutta Genova e, mi vergogno a dirlo, in 6 anni non c’ero mai stato. Inauguro l’esperienza in solitaria, in un tavolo da 6 insieme ad altri quattro sconosciuti. Ho mangiato da solo panini, kebap, pasta dentro a bicchieri in qualche tristissimo posto con la faccia rivolta ad un muro, ma mangiare seduto ad un tavolo con persone che non conosco mi mancava come esperienza (le sagre non le conto ed ero sempre in compagnia). E mi è piaciuta. E’ piacevole. C’è uno strano rassicurante contrasto tra il tuo silenzio e le chiacchiere che ti circondano, che permette di guardare intorno e osservare. Quello era un momento in cui avrei voluto realmente fare una foto. Includere tutte le persone una a fianco dell’altra in quel locale storico e singolare, quell’omino baffuto con la fisionomia del luogo comune Genovese, che pranzava da solo in un angolo della stanza insieme al suo quartino di vino, la sua pelle arrossata e vissuta, i ragazzi toscani di fianco a me e la signora scazzata davanti. I manager in giacca e cravatta un tavolo più in là e il viavai di muratori all’ingresso. Un clima rilassato, famigliare, genuino. E l’avrei pure scattata quella maledetta foto se non l’avessi ritenuta una cosa dalle elevatissime potenzialità irritanti per gli altri clienti e senza possibilità di passare inosservati. Secondariamente, ero in calo di zuccheri quindi avevo altro per la testa.
Però me ne esco satollo e me ne vado alla mostra dopo l’ennesimo giro.
Robert Doisneau : Paris en liberté
Dopo aver visto McCurry (“Invalidità, Mirò e McCurry“) negli stessi locali, l’impressione è che questa volta l’allestimento non sia curato e suggestivo quanto per la mostra del fotografo statunitense. Si entra nella prima stanza accolti da una sequenza di foto scattate ai volti delle persone in fila davanti alla “Gioconda” e le restanti sono esposte lungo le pareti e in alcuni “cubicoli” posti nella parte interna. Le altre due stanze non hanno nulla di ricercato, semplicemente le foto sono appese alle pareti. Sono anche presenti alcune composizioni seriali di foto e telai di contenimento molto interessanti (in particolare quello a condominio è geniale) ma queste fanno parte del lavoro dello stesso Doisneau. In un certo senso, la disposizione mi ha deluso per via del confronto tra le due mostre, ma allo stesso tempo la sua semplice praticità risulta poco dispersiva e favorisce la fruibilità delle immagini senza troppo fronzoli e cazzeggi. E poi sono un amante del bianco e nero in fotografia , quindi questo è un invito a nozze in qualunque caso.
La prima mazzata mi arriva nell’apprendere la pronuncia corretta del fotografo d’oltralpe : “Duanó”; a quanto pare ho sempre abbondato mettendo una “S” in più ma fa niente, il francese mi sta sulle palle e l’ho sempre parlato come una deriva del dialetto.
Doisneau da un certo punto di vista è incredibile. Viveva parallelamente in due dimensioni antitetiche e contrapposte. Da una parte il mondo lucido e patinato della moda e dall’altra quello delle persone comuni, della vita parigina e dell’autenticità del “basso” di cui era osservatore privilegiato. I suoi ritratti colpiscono per la profondità dello sguardo nell’impressionare una storia dietro ad un volto, che può parlare di una personalità magnetica come quella di una fisarmonicista capace di incantare macellai con la sua musica al punto da distrarli dalla presenza del fotografo, o di una vita ai margini, come quella dell’alcolizzato da bar Coco, con la stessa sensibilità visiva e ricerca nell’evidenziare realtà di vite costellate da difficoltà e contraddizioni ma distinte per la grande dignità umana. Godeva dell’amicizia di tantissimi personaggi famosi: stilisti (Yves Saint Laurent, Coco Chanel..), scrittori (Raymond Queneau, che volle essere fotografato in una via anonima perché si sentiva a suo agio solo in posti simili, Jacques Prevert, Georges Simenon,..) registi (Orson Welles) e pittori (Pablo Picasso), ognuno dei quali immortalato con scatti originali e curiosi, a volte con espressioni lontane dalla posa composta ma in cui emerge qualcosa di molto personale e inaspettato. Orson Welles ha oggettivamente un’espressione bruttissima nel suo ritratto, eppure è significativa. Ed è guardando questo ritratto e quello di Picasso che si inizia
ad intravedere quello che è, secondo me, uno dei lati migliori di Doisneau: l’ironia. Le pose in cui vengono ritratti queste grandi personalità della cultura sono (anche se in alcuni casi concordate) l’esatto contrario dell’idealizzazione, anzi, sembra che vogliano scherzare con la propria immagine e con quella dei ruoli che ricoprono. Il volto deformato di Welles in una smorfia poco elegante e Picasso che dipinge una foto di moda hanno il peso dello scherzo e della riproduzione di una quotidianità che distoglie dalla grandezza di questi personaggi, come lo stesso Queneau in posti totalmente privi di charme. Il fotografo francese, dal canto suo, è sempre stato caratterizzato da una certa eccentricità anche nella scelta delle location (così mi dice l’audioguida), nessuno prima di lui avrebbe pensato di poterne fare un servizio fotografico di fronte ad un negozio con in vetrina una serie di bustini
, proposta che comunque fu ben accolta dalla modella in questione (credo un’attrice ma non ricordo), in cui emergeva la sua originalità
creativa rispetto ai canoni del tempo. Ma è il senso dell’umorismo giocoso che pervade tutta la sua opera ad avere un occhio privilegiato sul mondo ed è proprio quello a rendere così piacevole tutta la sua produzione. Perché è proprio dall’impietoso obiettivo della macchina fotografica che vengono svelate alcune emozioni autentiche in cui emerge una carica di “critica” tenera verso le ipocrisie. Doisneau non sembra puntare il dito con sdegno ma più che altro voler evidenziare una situazione che susciti un sorriso mediante un contrasto umoristico. Come negli scatti appartenenti alla sequenza dell’antiquario Romin, un uomo eccentrico che mise nella vetrina un quadro che ritraeva una donna nuda di schiena sporta su una scrivania (a 90 per capirci), in cui Doisneau ritrae tutte le espressioni diverse: sdegno, im
barazzo, curiosità, indifferenza, indignazione, delle persone che passavano davanti al negozio. Anche quando coglie un momento potenzialmente inquietante o dall’impatto destabilizzante c’è comunque qualcosa che distoglie l’attenzione per suscitare una sorta di divertimento. Tutto viene alleggerito. Quello di Doisneau è un mondo edulcorato, ma positivo. E’ un mondo dalle fattezze morbide in cui non mancano le inquietudini sul mondo tecnologico, come la madre che spinge una carrozzina in mezzo ad un traffico folle di auto [personalmente mi ha fatto venire in mente la famosa foto di Piazza Tienanmen, anche se non c’entra nulla], ma in cui rimane un senso di divertimento e in cui nessuno viene risparmiato, nemmeno la memoria o l’autorità, dalla sua dissacrante delicatezza. Esemplari sono la serie di foto che ritraggono le statue di personaggi celebri vandalizzate dalle scagazzate dei piccioni o il poliziotto davanti alla bizzarra porta di un vecchio locale di cabaret (“L’inferno”) che sembra essere mangiato dal portone a forma di diavolo.
Doisneau è famoso soprattutto per “Baiser de l’Hôtel de Ville” che lo ha reso “immortale” ma che non gli fa l’onore dovuto perché la bellezza delle sue foto risiede in tutta la sua opera complessiva piuttosto che in quello scatto. E’ la totalità dell’anima che costantemente percorre i suoi lavori a rendere la sua opera così bella, l’ironia, il gioco, il grottesco e l’inaspettato sono il vero spirito del fotografo, la parte che personalmente mi ha conquistato di più. E’ vero, c’è molta tenerezza, c’è gioia nella visione con cui guarda al mondo e sono aspetti meravigliosi, c’è una ricercatezza visiva non comune, ma è proprio quando riesce ad unire la dolcezza con il sorriso spontaneo dato da un disvelamento improvviso di una realtà umoristica, che raggiunge le sue vette più alte.
Sono partito a guardare le prime foto senza particolari entusiasmi e anche un attimo deluso e forse prevenuto per il senso di fastidio legato all’artificiosità di “Baiser de l’Hôtel de Ville” (“Denise e Jean-Louis Lavergne mi stanno sul cazzo“) per poi rimanere, foto dopo foto, totalmente conquistato da questo fotografo che con un solo scatto riesce a far sorridere sempre, cosa di cui c’è parecchio bisogno. Specialmente per un musone ( a fasi alterne) come me.
Mi piace come articolo, anche se, sfortunatamente, della seconda parte ho capito quanto di astrofisica. Io e la foto siamo su due universi paralleli, qualche volta per effetto del culo, ci incontriamo… se no viaggiamo portata di braccio, niente di più.
Concordo sulla bellezza, a volte, di mettersi a mangiare da soli in un tavolo con altra gente. All’inizio è “quasi uno shock”, vieni privato della tua privacy nel mangiare, ma poi è interessante. Ancora meglio quando tu sei il primo al tavolo e la gente, o la cameriera, porta a te i commensali. Solo loro che hanno lo shock da privamento della privacy eheheh.
Se mi sono espresso male correggo, se è per l’argomento premetto che non sono un esperto mi diletto e ho fatto qualche corso ma nulla di più, sono andato a sensazioni personali quindi ci sta che tu mi dica “per me sono un cumulo di cazzate” o “non vedo nulla di quello che dici”. 🙂
L’ho trovata un’esperienza piacevole e insolita. Pensa che in realtà io ero quello che se ne stava da solo in un tavolo da quattro ma per far sedere i toscani sono stato spostato nel tavolo da sei con la signora scazzata, gli altri sono arrivati dopo, quindi ho provato entrambe le ebrezze! 😀
Scusa, ho espresso male il mio commento e, in realtà, è unicamente la testimonianza della mia ignoranza! Io di foto capisco poco, perciò, per quanto ben descritto, per quanto ci sia passione (come tu hai fatto, per entrambe le cose), io rimango sempre come il vecchietto che guarda il cantiere… occhio vitreo e testa semovibile! ahahahah. Vorrei riuscire a spiegare così bene, come te, delle sensazioni per delle foto, ma ogni volta mi blocco e dico… boh… bella eh, ma boh… 😀
No, sei stato chiaro ma mi è comunque venuto il dubbio! 😀
In realtà capita anche a me, infatti all’inizio non è che mi fossi fatto chissà che viaggi. Ma a furia di guardare foto l’ironia è diventata palese alcune sono proprio “divertenti”. E comunque è una reazione lecita la tua! 🙂 Tu spieghi altrettanto bene sensazioni per altre cose.. 😉
No no, sei stato iper-chiaro! Per questo si è accesa la lampadina al neon sopra la mia testa con scritto: “Ignorante!!!” ahahahahahah. Ci sono ambiti in cui proprio non riesco a centrare il bersaglio e, per questo motivo, uso spesso e volentieri le parole degli altri 😀 Comunque il bianco e nero è realmente chic per le foto, c’è poco da fare 🙂
Grazie mille Jeremy.
Grazie a te Zeus.
Mi hai praticamente portata a spasso con te.
Mi è piaciuto.
Ricambio al tuo sorriso e mi riprometto di dire qualcosa di più intelligente alla prossima occasione.
Torna presto anche tu.
Ciao Jeremy, grazie mille per questa ‘nostalgia genovese’ e recensione! Io sono proprio di Genova e mi vergogno a dirti che non sono mai andato ancora alla Trattoria da Maria XD Ma recupererò! 🙂 Invece molto particolare la mostra di Doisneau che dopo questa recensione non mancherò di visitare! Un saluto!
Ciao Andrea, grazie a te per essere passato, mi ricordo di averlo letto curiosando sul tuo blog e, se non sbaglio, sei anche appassionato di fotografia! Sulla mostra devo dire che mi ha conquistato poco per volta, ma è da vedere..
ahahahah! Allora tu sai il soprannome con cui è nota!! 😀 Mi confermi che è famosissima a Genova?
Diciamo mi diletto e curioso un pochino anche di fotografia eheh Sono un novellino alle prime armi, o meglio ancora nella fase “macchina fotografica conosciamoci e innamoriamoci perdutamente” XD Se me la consigli allora la vedrò sicuramente, soprattutto se è un crescendo, bisogna sempre curiosare 🙂 Per la Trattoria probabilmente ci sono anche passato davanti, ma non conosco granché i punti ristoro di Genova, lo devo ammettere (che ignoranza che mostro XD)
Quella fase non finisce mai anche io sono un dilettante.. 🙂 A me è piaciuta anche se non lo pensavo, dipende dai tuoi gusti.. McCurry è sicuramente diverso.. 🙂 Ahahaha! Ma pure io in realtà! La conoscevo solo per la nomea.. 😉