Esco di casa e vedo la gatta della mia vicina ferma ai bordi del campo in posizione di caccia. Sculetta e muove la coda rapidamente a destra e a sinistra. Si lancia e in un paio di salti prende la sua preda. Non ho il tempo di vedere bene cosa sia ma sembra una lucertola.
Una grigola, Grigua in genovese. Così le chiamava mio nonno quando voleva aizzare il suo cane. Prinz. Uno stupido barboncino bianco.”Prendi la grigola! Prendi la grigola!” gli gridava mentre il piccolo botolo
si affannava per azzannarla senza mai riuscirci. Abbaiava e faceva solo un gran casino e non ne raggiungeva mai una. Aveva una zampina che cedeva ed era leggermente zoppo. Anche mio nonno era zoppo, il residuo di un incidente stradale. La chiamava “la gamba gigia” quando ero piccolo.
Facevo ancora il liceo. Era un sabato pomeriggio quando sono andato a trovarlo. Qualche giorno prima era andato dal dottore perché non sentiva bene. Lui era una di quelle persone che si presentava dal medico già con la diagnosi. Prendeva i sintomi dall’enciclopedia e poi andava a chiedere conferma. Di solito erano ipotesi improbabili, malattie rarissime e strane sindromi tropicali. Gli prescrisse alcune medicine e iniziò a stare male. Quel giorno i miei genitori erano via, erano andati a fare il fine settimana fuori e io avevo casa libera. Avevo invitato un paio di amici a dormire da me e a passare la serata tra alcol e varie. Ci divertimmo tantissimo. Prima di andare a casa a preparare tutto passai a trovarlo. Era seduto sul divano della sala al secondo piano. Sembrava assente e intorpidito. Rimasi lì un poco di tempo, scambiando due parole, anche se non sembrava ci capissimo. Ad un certo punto gli chiesi che ore fossero. Guardò il suo orologio, quello che da sempre ricordo di avergli visto al polso, ma non capii la risposta. Disse un’ora improbabile e impossibile, borbottò qualcosa che non riuscii a comprendere. Non lo richiesi più. Mi alzai e gli diedi i soliti due baci. Ci salutammo. Il giorno dopo qualcuno mi chiamò a casa, mentre ero ancora con i miei amici, per avvertirmi che era morto.
Il giorno del funerale ricordo due sole cose. Mia nonna in lacrime mentre racconta che il suo ultimo gesto è stata chiedere una pasta. E la cosa mi fece sorridere sapendo quanto adorasse mangiare e quanto avesse sofferto la fame. L’altra è quando mi sono sporto dalla sala per vederlo nello studio. Da lontano. Coperto da un velo bianco. Il prete mi si avvicina, mi stringe la mano, mi sorride e mi dice “E’ da un po’ che non ti vedo a messa.” Ho impresso nella memoria il suo volto sorridente con un dente argentato, o dorato che sia. Credo di aver annuito. Perché a meno di un metro dalla salma non potevo gridare o dargli un pugno.
Poi buio totale. Non ricordo nulla. Mi rivedo al cimitero mentre i due becchini cercano di issare la bara con un carrellino elevatore ma non ci riescono perché è troppo pesante. Dicono qualcosa tra di loro e ridacchiano.
A me non viene molto da ridere.
Ci son cose dei nostri nonni che ci scorrono dentro molto più di quelle dei nostri genitori.
Mi han fatto emozionare le tue parole. Non c’è altro da dire. Spero che il tuo pomeriggio sia meno nuvoloso del mio.
Spero che le tue nuvole si diradino.
e com’è il tuo cielo oggi?
Oggi non é proprio soleggiato, ma é sufficiente guardare altrove.
e non lasciarsi risucchiare dalle nuvole..
Vero.. in certe giornate quella é la parte più difficoltosa.
Dei nonni si ricordano sempre pochi ed essenziali insegnamenti. Poche parole, citazioni, pensieri che restano indelebili e che, a volte anche inconsciamente, ci guidano per tutta la vita.
Hai ragione. Dell’altro mi é rimasto ancora meno: una manciata di libri, delle foto e i ricordi di altri perché non l’ho mai conosciuto. Ma comunque c’é.
Grazie, è proprio bello quello che hai scritto! Mi ha fatto ricordare una cosa di mio nonno.
Io adoravo mio nonno, l’unico che io abbia mai conosciuto.
Lo adoravo anche perché aveva davvero il pollice verde, era incredibile. Prendeva qualsiasi pianta, fiore, albero che chiunque avrebbe detto senza vita e lo rimetteva in sesto. Non ha mai fallito. Ho questa immagine scolpita in testa: lui, già cieco, che impartiva ordini perentori a mio padre su come potare i rami di un albero di ciliegie. Il suo albero preferito.
Anche noi siamo liguri, però le lucertole mio nonno le chiamava “lessoe” 🙂
Ti ringrazio per aver condiviso con me un ricordo così bello e personale.
Mi ha sempre fatto impressione come cambi lo stesso dialetto anche a distanza di pochi chilometri, tra paesino e paesino. In realtà del ligure non ho nulla (tranne qualche accento involontario) perché vivo da un’altra parte, infatti non ero sicuro che si dicesse proprio così e sono dovuto andato a cercare su internet! 😉
Ahahaha meglio per te, noi Liguri siamo proprio tremendi 😀
I dialetti sono fantastici e io li amo 🙂
In effetti quel quarto di ligure che ho ne sangue a volte si fa sentire pesantemente… 😉
Io ho con loro un sano rapporto di ambivalenza-indifferenza.. 😉
L’intolleranza estrema e il lamento continuo fa parte di noi… 😀 sei così, a volte?
Eh, mi sa proprio di si… 😀