Frank Bascombe è diventato cronista sportivo dopo la pubblicazione di una raccolta di racconti che lo condusse alla notorietà ma la cui scalata verso il mestiere di scrittore venne interrotta dalla mancanza di ispirazione e dall’essersi adagiato nella nuova professione di giornalista. Durante l’anniversario della morte del figlio Ralph, deceduto giovane a causa di una rara sindrome, si ritrova con l’ex moglie X (non viene mai nominata) al cimitero, per commemorarne la scomparsa. Le loro vite hanno preso direzioni diverse e Frank sta per partire, insieme alla sua nuova fiamma Vicky, per Detroit e passare il fine settimana di Pasqua insieme a lei e alla sua famiglia. Frank, a causa della tragedia vissuta per il figlio e il conseguente divorzio per uno dei sui tradimenti (l’unico effettivamente scoperto e anche l’unico che non era in realtà un tradimento a tutti gli effetti), si ritrova ad affrontare una vita diversa da quella che aveva pianificato e a fare i conti con il passato durante questo fine settimana in cui avrà modo di ripercorrere le proprie scelte e fare una serie di riflessioni e bilanci sulla propria esistenza.
Richard Ford è stato il primo scrittore a vincere sia il PEN/Faulkner che il Pulitzer per la narrativa con “Il giorno dell’indipendenza“, seconda parte delle vicende di Frank Bascombe che vengono portate a conclusione in “Lo stato delle cose” con cui viene chiusa la trilogia del giornalista sportivo. Questo per dire che evidentemente deve essere uno scrittore piuttosto acclamato e riconosciuto (sul retro del libro viene definito come “uno dei più grandi scrittori americani contemporanei” e ultimamente sto dubitando di questa dicitura perché qualunque scrittore “americano” viene sempre definito “uno dei più grandi” e blabla) anche se personalmente non mi ha entusiasmato per niente. Mi viene da pensare che sia colpa mia e di qualche difficoltà di attenzione diffusa tra i miei neuroni, ma alla fine di tutto non sono proprio riuscito a farmelo piacere totalmente. Mi ha annoiato e ho fatto fatica a concluderlo (anche se non come “Il tamburo di latta” di Gunter Grass. Per me fu una vera agonia arrivare alla fine e rappresenta l’apice nella mia personale classifica di illeggibilità, per quanto abbia preso il Premio Nobel nel 1999). Forse perché è molto lontano dallo stile che di solito mi piace leggere, o più semplicemente perché ero interessato a “Lo stato delle cose” ma, avendo saputo che era l’ultimo della serie, aveva poco senso iniziare con quello, e quindi non so, vai a sapere.
Ford scrive in una maniera poco coinvolgente, spesso è come se descrivesse meramente (“Le cose vanno meglio se le si lascia essere puri e semplici fatti.”) gli spostamenti dei suoi personaggi alla maniera di un puro elenco (cosa che ho sempre trovato piuttosto irritante e presente anche in scrittori come Jack Kerouac [infatti “On the Road” non mi è piaciuto per un cazzo. Anche se dopo aver finito di leggerlo devo ammettere che mi era venuta una gran voglia di girare in macchina senza meta per Europa, Stati Uniti o chissà dove..]); li congela e li fa muovere, che nell’ottica dei numerosi incontri umani di Frank risulta una scelta controproducente, benché coerente con il suo stile, appunto, minimalista quindi asettico e legato alla freddezza emozionale. Allo stesso tempo però ci sono dei momenti molto introspettivi e riflessivi ma che sembrano macchinosi e sospesi, senza che si capisca dove si vuole arrivare (che forse è quanto in realtà vuole sottolineare: “Certe volte la vita è solo vita e basta, come certe domande sono senza risposta.”) e privi di reale coinvolgimento. C’è l’impressione che ci sia solo l’esibizione di reali capacità di scrittore piuttosto che il tentativo di comunicare qualcosa. C’è un senso di vuoto e di disorientamento per tutto il romanzo che impedisce di capire quale sia l’intenzione di fondo. E’ come se al termine della lettura non fosse rimasto nulla, nessuno spunto ad eccezione di alcune frasi di un certo interesse e alcuni rari momenti in cui emerge un dato sensibile e vivo (“Il conforto della letteratura è sempre temporaneo, mentre la vita non si ferma mai.“). Frank Bascombe non è una macchietta ma a tratti è come se lo fosse perché non riesce a dire nulla di particolarmente incisivo se non nei frangenti in cui pare emerga qualcosa di sentito: l’incontro al cimitero con la ex moglie, i dialoghi con Walter, il primo litigio con Vicky, il sospetto dell’esistenza di un altro uomo per X e l’incidente nella cabina telefonica ma tutto con una persistente distanza.
Pregevoli le sue riflessioni sullo scrittore e sulla letteratura.
Il resto è come se non avesse un’anima o volesse tentare di averla senza riuscirci fino in fondo in maniera da risultare credibile, che nell’ottica di un minimalismo rappresenta probabilmente un obiettivo centrato.
Ciò significa, molto semplicemente, che il minimalismo di Ford non fa per me.