Adam (il regista stesso), Nathan, Shane e David sono quattro sceriffi di Albany in Georgia. La vita dei tutori della legge scorre parallela al lavoro con tutta una serie di drammi personali per ognuno di essi, la morte della figlia, la riconciliazione con la ragazza abbandonata perchè incinta, la separazione con la moglie e le conseguenti difficoltà economiche, una figlia adolescente in crescita con i primi turbamenti ormonali, che rivelano modi diversi di affrontare la quotidianità in cui tutti i protagonisti sono però accumunati da una forte fede in dio. Al gruppo si aggiunge anche Javier, manovale perennemente in bolletta anch’egli profondo credente, che incrocia le loro vite a causa di un banale malinteso.
Il coraggio sbandierato dal titolo non è quello legato allo sprezzo del pericolo dei film d’azione anni ’90 che ci piacciono tanto, quanto alla capacità di assumersi le proprie responsabilità nella vita e alla spinta di cambiare, uscendo dalle crisi come persone nuove, più salde e forti. I protagonisti vengono messi tutti alla prova di fronte alla propria moralità ed etica e solo rimanendo saldi possono proseguire oltre, in un percorso di crescita che si rivela comunque doloroso e difficile.
Un film fuori dal coro perché la rettitudine dei protagonisti viene premiata, a differenza di chi cede nel momento di difficoltà che invece viene giustamente punito. Lo ammetto, alla fine della scena del colloquio di lavoro ho goduto come un riccio. E il perché lo scoprirà chi avrà voglia di affrontare la visione di un film banalmente noioso e sotto la media. Potrebbe essere tranquillamente uno di quei terribili film tv che vengono trasmessi durante i tediosi pomeriggi estivi. In realtà sulla carta avrebbe anche avuto alcune potenzialità, ma che tuttavia rimangono inespresse e nascoste da una regia insignificante, da una tracontanza religiosa intollerabile e da un accanimento sullo spettatore alla ricerca della lacrima facile, dalla morale ovvia e senza una sincera commozione (cazzo, venti minuti [più o meno.. percepite in realtà due ore!] di riprese sulla sofferenza della famiglia a seguito della perdita della figlia forse sono un po’ troppe). Alla fine il magone arriva, però ha lo stesso valore di quando qualcuno ti tira un pizzicotto forte fino a farti piangere.
Appena non senti più dolore tutto torna come prima e non ti è rimasto niente.
A mio avviso a tratti diventa un polpettone retorico intriso di buonismo e moralismo bigotto e trasudante superiorità. Dio ovunque e in ogni parola con la spocchia di chi la sa lunga. Dio, dio, dio, dio, e che due palle! Soprattutto perché ogni conversazione ha quell’intrinseco sapore di ortodossia e becera adesione a regole religiose priva di un reale e profondo convincimento interiore. (Che è quello che personalmente detesto in alcuni soggetti. La questione non è la differenza di idee [chi scrive è ateo] ma l’adesione granitica ad una serie di dettami religiosi, senza una visione spirituale e profonda della vita, che in qualche modo limita l’elasticità e l’incontro [anche da parte mia, per carità]. Cosa piuttosto comune mentre [parlo ancora per me] è difficile trovare qualcuno che ti trasmetta un senso di pace, di rispetto, nel vivere le proprie convinzioni in un rapporto intimo e consapevole con sé stessi e il mondo.)

Figlia mia, ti farò trombare quando dio mi dirà che sei pronta (farà scendere un angelo? Metterà un annuncio sul bollettino parrocchiale?) fino a quel momento stai chiusa in casa..
Ricordo il concetto di “fratelli separati” di Rosmini (o almeno credo che fosse suo, era sicuramente in un libro in cui si parlava di lui) secondo cui esistono una serie di persone che hanno una visione della vita molto vicina a quella di chi ha fede ma mancano dell’ultimo passo in dio per diventare come gli altri. Sono “fratelli” perché condividono qualcosa ma “separati” perché non riescono a riconoscere dio ed arrivare al livello degli altri. Sul momento questa idea mi piacque, poi mio zio (e lui era credente) portò la mia attenzione sul fatto che era una rappresentazione tutt’altro che bella. Come se chi credeva in dio se ne stesse sulle sue nuvolette sopra tutti gli altri, e chi invece non era come lui, poverino, è perché non ce la faceva e gli mancava qualcosa.
Era una persona “speciale” da compatire un pochino e comprendere con tolleranza.
Questo film è pieno della superiorità di chi se ne sta sulle nuvolette e compatisce gli altri in maniera giudicante ed è una cosa fastidiosissima che si percepisce dall’inizio alla fine.
Tuttavia ha sicuramente il merito di aver provato a dare una prospettiva diversa e di aver tentato di fare un film incentrato sulla responsabilità senza scappatoie e giustificazioni a sé stessi e ai propri errori. Per quanto immagini Alex Kendrick, pastore battista, come un’invasato di religione completamente rincoglionito (non ho avuto modo di verificarlo, qui entra la faziosità dei miei pregiudizi) gli riconosco la bontà delle intenzioni e la buona riuscita di alcune scene nel film. Javier che si finge il capo di una gang e i malintesi di Adam con il suo superiore mi hanno strappato un sorriso.
Tutto il resto, da un certo momento in poi (persa la curiosità iniziale) mi faceva solo dire : Minchia, ma quando finisce?
Giudizio in minuti di sonno : un film così meritava almeno un’oretta di sonno e invece sono stato sveglio dall’inizio alla fine. Che tristezza e vergogna per me stesso..