Lo ammetto, invalidità è una parola grossa ma “indisposizione” non mi piaceva, “infortunio” nemmeno e quindi ho scelto “invalidità” (aggiungerei anche “temporanea” [un paio di giorni non di più]).
Dunque, a causa di una leva articolare troppo decisa subita al braccio, durante l’allenamento di giovedì, ho deciso (in realtà ho il gomito un attimo bloccato e con la scioltezza di robocop, non avevo grandi alternative) che sabato era il caso di stare fermo e non fare nessuno sport. Quindi ho improvvisato e me ne sono andato a fare giornata a Genova con l’intenzione di guardare McCurry e fare due foto.
Alla fine ho visto anche Mirò (e la macchina fotografica non l’ho nemmeno tirata fuori dallo zaino).
Da solo.
Perché per le leggi di Murphy non si trova mai nessuno quando vuoi fare qualcosa e se hai preso un impegno con qualcuno, al contrario, ti chiamano tutti.
Mattino: Mostra di Mirò.
Premetto che Mirò lo conoscevo solo per sentito nominare, da Homer Simpson (episodio Lo show degli anni ’90 [stupendo, non mi stanco mai di guardarlo!!!]) e per giunta chiamato “Giua Mairo” (magari sto esagerando ma in ogni caso sapevo a malapena chi fosse).
L’arte astratta mi lascia sempre piuttosto perplesso anche perché, non stiamo a fare i finti intellettuali: certi disegni potrebbe REALMENTE averli fatti un bambino di due anni (detesto dal profondo quelle persone che si danno arie enciclopediche con picchi di critica artistica e trascinante trasporto passionale [finto] in cui il nucleo di fondo, in realtà, è sorretto dal solo pensiero che l’arte sia bella perché è arte. Un cazzo. Io [parlo per me] posso apprezzare una qualunque opera d’arte solo se mi spiegano qualcosa di quello che l’autore voleva dire, magari contestualizzando un attimo. Altrimenti non vuol dire niente [limiti miei di fruibilità, per carità]. Non so.. avete presente quei tizi che passano le ore a fissare un quadro raccontandoti di essere in estasi come se la comprensione fosse una questione di tempo? Che significato ha, se non quello di darsi un tono da pseudo artista del cazzo, come se loro capissero qualcosa che agli altri comuni mortali non è dato raggiungere? Io credo, magari erroneamente, che la questione non sia quanto tempo passi di fronte a quel quadro, ma cosa riesci ad interiorizzare di quello che hai visto. Quanto riesci a farlo tuo, a pensare, a subirne il fascino o la provocazione anche quando non ne sei direttamente stimolato. Una specie di scia che ti rimane dentro, un germoglio che ti conduce verso nuove orizzonti e che non può aver bisogno di ore. O tu sei lento a capire o lui era un incapace a spiegare.) non stiamo tanto a raccontarcela. Vedere tutte quelle linee e colori senza un minimo di contesto o di imbeccata critica (benché Basquiat [un altro che faceva OGGETTIVAMENTE disegni come un bambino di due anni] dicesse “non ascolto mai quello che dicono i critici. Non conosco nessuno che abbia bisogno di un critico per scoprire cosa sia l’arte“) non ha alcun significato. E’ nel momento in cui qualcuno ti spiega le intenzioni dell’autore (che magari può anche essere lui stesso) che realmente ne apprezzi l’operato e riesci ad andare oltre non vedendo più quelle linee prodotto potenziale di un bimbo ma come qualcosa di diverso. Per questo ho iniziato ad apprezzare Mirò (e anche Basquiat prima di lui o Duchamp, tanto per citare altri due che mi lasciavano perplesso) nel momento in cui ho sentito che la sua intenzione era “assassinare la pittura” staccarla dai formalismi e persino dall’uso della tela. La sua arte (parole di Mirò) era pura creatività e fantasia, in cui ognuno può vedere quello che vuole a sua libera interpretazione (e quindi posso dire quello che voglio seguendo ammassi di proiezioni).
Con questa chiave tutto ha un senso perché è indispensabile che dietro ad ogni produzione ci sia un pensiero. (E’ la sostanziale differenza tra artista folle e folle artista [nel secondo caso la pretesa artistica non sussiste ma non è di questo che voglio parlare ora]). Ed è quando sento parlare di “assassinare la pittura” che inizio a vedere i riferimenti al corpo della donna, alle pitture rupestri, a tutto ciò che è popolare e la ricorrenza delle stelle. Di tutte le opere che ho visto forse mi sono ritrovato ad apprezzare più che altro l’originalità delle forme e i colori vivi (che è come dire niente).
Due mi hanno colpito:
“Senza titolo 1974”
in cui viene rappresentata una notte di luna con una mantide stilizzata su sfondo blu (colore simbolo dei sogni) perché mi ha fatto pensare alla totale assenza di razionalità della notte, all’inconscio, agli archetipi e alla materia dei sogni (si, sto sparando a caso ma l’immagine di una mantide gigante che sovrasta una luna mi piace parecchio, trovo sia poetica ma non saprei dirne i motivi).
“Personaggio e uccello”.
Qui Mirò usa la carta vetrata come supporto riprendendo i suoi riferimenti agli uccelli, astri, donne. Quello che mi è piaciuto è che abbia strappato una parte della carta vetrata per girarla e riattacarla sopra la sua opera. Mi ha fatto pensare che volesse rendere evidente il vero materiale di supporto come a strappare il velo della fantasia per far vedere che anche il sogno ha una base di realtà, che spesso tutto ciò che viene idealizzato nasconde dietro di sé una base più povera oppure, al contrario, che anche le cose “povere” possono essere elevate in funzione di qualcosa di più grande (tanto posso dire quello che voglio visto che è a libera interpretazione).
In conclusione mi è piaciuta e mi ha pure commosso sentire certi commenti di Mirò (compreso nel prezzo della mostra c’era la guida audiovisiva. Ottima iniziativa per capire e seguire meglio, però ti porta al paradosso di avere davanti a te le opere d’arte e finire per guardarle dallo schermo di un IPOD [Maledetta Apple, anche qui..]. Oltre al fatto che vedere tante persone che si aggirano isolate le une dalle altre con delle cuffie alle orecchie mi ha dato uno strano senso di alienazione) a proposito di una delle sue prime mostre, osteggiata al punto che la gente era arrivata a strappare i suoi disegni e riempire i muri di scritte oltraggiose.
Pranzo con un amico che, come al solito, mi ha chiarito alcune cose, dato spunti e sollevato dubbi.
Pomeriggio: Mostra di McCurry.
Anche qui la guida audio era compresa nel prezzo e il senso di alienazione prosegue.
Nella prima stanza c’erano tutti i ritratti, compreso quello che gli diede la notorietà (che non metto per evitare banalità). A primo impatto mi viene da pensare che la bellezza venga dalla natura “esotica” dei ritratti e dalla qualità altissima delle foto e dalla loro definizione (provo subito un moto di invidia e mi immagino già che usi una reflex con obiettivi stratosferici, mentre io che sono un povero dilettante mi ritrovo con quello che mi posso permettere [che comunque è adeguato alle mie capacità]), in fin dei conti sono volti che non sono abituato a vedere normalmente.
Ma poi mi accorgo che non è solo quello.
Anzi, non è assolutamente quello il motivo.
I volti invece sono tutti uguali nel senso che non appartengono a popoli diversi ma ad una sola categoria, quella dell’umanità. Nonostante le provenienze, spesso agli antipodi del pianeta, sono volti famigliari, simili, accumanati da un filo ricorrente. Non sono volti distanti. In essi vedi qualcosa che appartiene anche a te come a qualunque persona. Nello stesso tempo quello che li rende così diversi l’uno dall’altro è il fatto di esprimere un’esperienza diversa, un dramma, un’emozione, uno sguardo, un sorriso che vengono fissati nell’immensità di un solo istante catturato con innegabile maestria.
Mi stupisco nel ritrovarmi rapito dal sorriso di un vecchio sdentato (e con i rimanenti nerissimi) perché è meravigliosamente bello nonostante la sua palese bruttezza (e solo ora realizzo quanto avesse ragione il mio amico del pranzo nel sostenere che Quasimodo di Hugo avesse sbagliato nel nascondersi, perché in realtà avrebbe dovuto al contrario esibire la sua bruttezza e mettersi in gioco, farla diventare un pregio, dare valore a sé stesso).
Queste foto hanno realmente rubato l’anima delle persone ritratte perché si riesce ad andare oltre la stampa per giungere al racconto di una vita intera narrata tra le rughe di un volto.
Non sono gli abiti a fare la differenza, ma le espressioni raccontate.
La seconda stanza è quella degli orrori del mondo e non voglio nemmeno commentarla ma lasciare che sia questa foto a farlo.
E questa, che per McCurry rappresenta la distanza tra il mondo ricco e quello povero, da sempre separati e situati in due parti opposte di una barricata.
La terza stanza è quella di scatti dal mondo, di vario tipo, eccone un esempio, piuttosto noto anche questo in realtà.
La quarta stanza è quella gestita peggio. Poco Spazio, ci si trova tutti ammassati senza possibilità di movimento.
In generale un bellissimo allestimento, molto originale e piacevole. Assolutamente imperdibile per fare veramente “un viaggio intorno all’uomo” per vedere frammenti di anime (compresa la propria), squarci di orrore, sipari di realtà e istanti irripetibili che diversamente (la fotografia serve anche a questo) sarebbero andati “perduti nel tempo come lacrime nella pioggia” (Blade Runner).
Ora passiamo alle persone: Cosa cazzo vi spinge ad andare alla mostra di un fotografo con una reflex per fotografare le foto? Che senso ha? Perché mortificare così la vostra macchina fotografica?
Perché non uscite ad usarla per cercare di ritrarre VOI qualcosa?
COSA CAZZO VE NE FATE DELLA FOTO DI UNA FOTO, CRISTO SANTO?
Avevo proprio bisogno di una giornata così, forse il pretesto del braccio è capitato a proposito.
(N.B. La parte su McCurry è scarna per tre motivi. 1) Le immagini sono ognuna una realtà a sé e vanno viste tutte. 2) Personalmente privilegio i ritratti e per questo ho dedicato molto più attenzione a quella parte 3) Ho dimenticato di salvare il post e ho perso tutto quello che avevo scritto, che comunque non era molto più lungo.)
L’opinione del tuo amico riguardo Quasimodo mi ha dato uno spunto da non sottovalutare, anche se sarà difficile metterlo in pratica. Di ‘grazie’ al tuo amico da parte mia e… Ottimi i commenti su Mirò! 😉
In realtà ci è andato molto più pesante.. E’ un saggio.. 😉
Non avevo la macchina fotografica con me ma confesso che sarei stata tentata di fotografare! Però, come te, penso che la cosa non avrebbe avuto senso. Ionfatti ho deciso di godermela così.
🙂 … Ammetto di aver fotografato qualche dipinto in altre occasioni e l’utilità è più o meno la stessa.. 🙂
si, è perchè vogliamo portarci a casa l’emozione, pensando che, a rivederle, questa emozione sia ripetibile. .
Hai assolutamente ragione, condivido..